COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE

L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.

Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.

Copia di POST 2024 1

DANILO

“La vedi la terza foto? Ecco, quello è mio bisnonno”. Danilo Murroni, classe 1988, personal trainer milanese per adozione, mi accoglie così a casa, indicandomi un poster appeso in bella vista: “I banditi di Sardegna, 1901”, dice il titolo. Insomma, iniziamo bene.

Mi spiega che si scrive “Nuoro” ma si legge Nügoro: Danilo è sardo, originario di un piccolo paesino che, si può immaginare, con Milano non ha nulla a che vedere. Vive in Lombardia da più di dieci anni, ed è stabile nel suo capoluogo dal 2017. Si tratta di un innesto che ormai sembra aver attecchito ma, come mi ricorda più volte durante il nostro tempo insieme, questa è solo una tappa intermedia della sua vita.

In effetti, Danilo non è il classico personal di sala pesi. Si nota già dalla sua postura e dalla camminata, lui è un vero e proprio oplita[1]. Il suo curriculum è segnato indelebilmente dagli sport di combattimento, la sua vera passione. Una vita dedicata all’allenamento funzionale – all’allenamento “duro”, mi dice – facendo girare sacche bulgare e kettlebell tra una IPA e l’altra.

Mi confessa che tutto è cominciato da piccolino, guardando cartoni giapponesi, e il resto è venuto da sé, un po’ per curiosità e un po’ perché in Sardegna sembra esserci una sorta di tradizione ben radicata riguardo allo sport della lotta e alle discipline che la richiamano. Nonostante sia partito con la classica iscrizione al club di calcio sotto casa (“Ai quali non sono praticamente mai andato”, confessa), dai 9 anni di età Danilo ascende una scala lastricata di Judo, Taekwondo e allenamenti di forza che, come una climax, culmina con la Muay Thai (o boxe tailandese), attorno ai 21 anni.

“Eravamo degli incoscienti: con gli amici che praticavano sport simili ai miei abbiamo passato l’adolescenza a testare i nostri limiti, a picchiarci nel campetto dietro casa per provare agli altri (o forse a noi stessi, ndr) cosa pensavamo di essere capaci. Credimi: il corpo è più robusto di quello che si pensi. Allora la mia dieta era a base di pane e Budo International, l’unica rivista reperibile all’epoca che offrisse uno spiraglio sul mondo delle arti marziali e del combattimento. Tra l’altro, ricordo molto bene ogni allenatore che ho avuto”.

E così, Danilo mi parla del maestro Piero, che lo seguiva sul tatami, a Judo: soprattutto mi colpisce che lo ricordi come “un uomo austero”.Copia di POST 2024 1Lo descrive con questo aggettivo e io, ex Judoka, non posso fare a meno di richiamare alla memoria i miei ex maestri di Judo: Gianfranco e Beppe. Con loro ho trascorso sei anni in tutto, ero solo una bambina, ma mi hanno insegnato tanto. Fermi e mai eccessivamente severi, amici ma non pari… insomma, mi sentivo trattata non come una bimba ma come una allieva. Ricordo ancora quando, durante una gara di combattimento (shiai), avevo vinto su un’avversaria terrorizzata: si era spaventata della mia stretta molto decisa sul suo judogi, e si era fatta battere in un attimo, scoppiando in lacrime, fomentando ancora di più la mia aggressività a ogni ripresa. Però, a bordo tatami, mi hanno poi spiegato: “Credi di aver vinto, ma sei stata eccessivamente violenta nel tuo approccio, non era necessario” e, alla mia risposta stizzita e capricciosa sono stata zittita con una frase a cui ogni tanto penso ancora “Nel Judo, quando sale la collera, bisogna tenere a freno la lingua”. Quell’embrione di consapevolezza mi sarebbe cresciuta dentro indelebile. Nel Judo… nella vita… che differenza fa?

Poi Danilo mi racconta che è venuto Giulio, il primo allenatore di Muay Thai:

Il primo che ha davvero creduto in me e investito del tempo su un progetto comune. Tuttavia, nonostante avessi circa 21 anni, con il tempo, ho potuto percepire anche i suoi limiti: incontrarlo mi ha senz’altro consentito di imbastire lo stile di allenatore che tutt’ora adotto, nonché di ricordarmi quanto sia fondamentale evitare di avere lacune dal punto di vista didattico.”

Vero è che, bisogna dirlo, c’è anche qualche altra figura di guida sportiva che non gode degli stessi bei ricordi nella sua memoria – e, non a caso, si tratta della fase complessa dell’adolescenza del nostro combattente sardo.

Questo periodo, per Danilo, è un po’ un buco nero. Dopo il liceo sceglie di prendersi un anno sabbatico, lasciando la Sardegna per finire a iscriversi alla Facoltà di Filosofia, in una università toscana. Ma questa non è la sua strada. Bussano alla porta e, aprendola, scopre che dall’altra parte c’è un anno di vita a Torino: “… Il buio”, confessa.

Ecco che si riparte dalle origini: questa esperienza gli fa affondare più che mai le proprie radici nell’isola dove è nato, e infatti sceglie di ritornarci. Lì, a 23 anni, diventa ufficialmente atleta di Muay Thai e si dedica con anima e corpo alla preparazione di gare... insomma, ecco le famose sliding doors. In questo modo scopre qualcosa che, probabilmente, già sapeva: lo sport è ciò di cui vuole vivere. Ottiene la qualifica per poter lavorare in sala pesi e inizia nella palestra che il suo allenatore, Giulio, apre: “In realtà, praticamente, lì ci vivevo proprio. Lavoravo gratis e passavo gran parte del mio tempo tra quelle mura, ad allenarmi. Sono proprio stati anni formativi quelli… non solo lavorativamente parlando, ma anche per le mie capacità di atleta. Avevo iniziato a vincere parecchi incontri e andavo a mille, non mollavo un centimetro di terreno, perché l’idea era quella di puntare sugli incontri all’estero per fare il salto di qualità. Dunque, per un anno mi sono risparmiato le gare in territorio italiano. Purtroppo, i match europei saltano tutti, a uno a uno: scelgo quindi di iscrivermi a uno in Italia ma, quando è il momento di combattere, mi avvisano all’ultimo e mi presento senza riscaldamento… insieme alla vittoria ho portato a casa diversi dolori, quella volta. Di lì a poco accade che la palestra del mio allenatore va in bancarotta.”Copia di POST 2024 1A questo punto, è l’occasione per dare una seconda opportunità alla Lombardia: Danilo torna nuovamente nel continente, si trasferisce a Pavia, ma è costretto a gestire anche l’infortunio che colpisce il suo tendine del bicipite sinistro. Potrebbe sembrare l’inizio della fine, una catena di sfortune che sembra interminabile, eppure: “Pensa, è proprio qui che la vita ha ripreso ordine”, mi dice: “Mi sono riabilitato in tre mesi e ho ripreso il mio sport. Per ogni allenamento facevo un’ora e mezza di treno, dopo lavoro, da Pavia a Milano. Ho lavorato in un call center vendendo pannelli solari e caldaie, mi sono anche inventato aiuto cuoco. E poi… è successo di nuovo, altre sliding doors”.

Danilo mi racconta di come quegli anni complessi fossero tenuti insieme da una forte cornice che, ancora, ricorda con affetto. Infatti, mentre si trovava sulla giostra imprevedibile di quel periodo, ha condiviso quattro primavere con una ragazza (che citeremo solo per iniziale), G., e che sembra aver segnato molto profondamente il nostro sportivo sardo. Praticamente tutti abbiamo avuto un primo amore e mi appare subito chiaro che questo posto sia occupato proprio da lei, nel centro dell’anima di Danilo.

“Lo dico tranquillamente, G. è stata la mia fidanzata storica. Forse un amore puerile: non immaturo, ma… acerbo. Tuttavia, con lei ho vissuto l’idea del talamo familiare[2]. Nutro tutt’ora grande stima nei suoi confronti e il nostro rapporto è sorretto da un forte rispetto che, mi sento di dire, è stata la risposta naturale alla fine della nostra storia.”

Il modo in cui mi descrive G. me la fa immaginare come una pianta di gelsomino: dal fusto robusto ma elastico, legnoso ma che si adatta, la cui presenza è impossibile da ignorare per via del proprio profumo pervasivo. La particolarità del gelsomino è che, se gli si strappa un rametto per conservarne i bellissimi piccoli fiori, lui si difenderà macchiando con un latte appiccicoso che si faticherà a levarsi di dosso. Un po’ come è successo a Danilo e G.: non so come lei sia fatta fisicamente né di che si occupi nella vita ora, non mi dice altro su di lei, eppure mi dice abbastanza. Infine, faccio una ricerca veloce e mi accorgo che la memoria non mi inganna: nel linguaggio dei fiori questa pianta simboleggia amore, sensualità, e donarla a qualcuno è una inequivocabile dichiarazione d’amore. Forse è per questo che mi sono immaginata così G.Copia di POST 2024 1Chiedo a Danilo di fare un passo indietro: ma quali sono queste “seconde” sliding doors?

“Ci sto arrivando. Ti dicevo: dopo essermi lasciato con G. ho sentito la forte necessità di prendere in mano la mia vita, di nuovo. Ho stampato dei curriculum, ho preso il treno a Pavia e ho fatto il giro di alcune palestre milanesi. Casualmente, sono capitato proprio nel giorno di “porte aperte” di un club in zona Loreto: di lì a poco mi hanno assunto, era il 2017.”

Mi spiega come gli sport da combattimento siano discipline totalizzanti, avide. Ecco perché era così fondamentale mettere ordine nella propria vita, in quel periodo.

“Prima sistemo tutto il resto e poi posso dedicarmi serenamente al mio sport. Per me è stato fondamentale capire di che vivere, dove voler stare, e poi buttarmi di nuovo a capofitto sull’allenamento.”

Così, attorno ai 30 anni Danilo fa il personal in sala, tiene lezioni private di funzionale e ha qualche allievo/a anche di kickboxing. Poi però arriva il 2019 e, ovviamente, il COVID.

È stato bètte[3] duro quell’anno, e anche il seguente. Lavoravo al parco nonostante fosse zona rossa, e vedevo che c’erano altri allenatori nelle mie stesse condizioni. Però ce l’abbiamo fatta. A ogni lezione mi trascinavo dietro kettlebell da 30 o più chili e altri strumenti necessari per gli allenamenti di funzionale. Il parco non era lontanissimo da dove abitavo, però era una bella vasca. Tuttavia, ero davvero contento di ciò che facevo, perché mi permetteva di stare a contatto con il mio sport.”

Tutta quella fatica è servita a qualcosa, perché ad oggi Danilo opera nello studio che condivide con la sua socia, a Milano, in zona Calvairate. È una palestra piccola ma fornita di tutto il necessario. Pulito, semplice, è uno spazio contenuto che non si preoccupa di apparire ma sceglie piuttosto di “essere”. Quello è stato per lui lo scalino fondamentale da salire per poter soddisfare la richiesta sempre più crescente della clientela, oltre che per riappropriarsi di un luogo che consentisse anche di allenarsi in qualsiasi momento. Questo argomento apre un’interessante discussione su ciò che significhi per il nostro combattente essere allenatore. Domanda prevedibile la mia, e risposta non scontata la sua:

“È questione di approccio. Io non faccio solo perdere chili, guadagnare trazioni o tirare cazzotti contro i colpitori. Non faccio una vendita commerciale del mio lavoro, che mi permette di vivere in questa città. Si tratta di fidelizzare il cliente spingendolo e aiutandolo a migliorarsi: ecco perché essere un personal non significa ssere solo un tecnico ma costruire anche un rapporto umano, per me. Ecco perché è fondamentale la creazione e la cura dei confini: i miei sono clienti, non amici. Ciò significa che, se smettono di frequentare il mio studio o scelgono un altro collega, io non la prendo sul personale. Passo la maggior parte della mia giornata insieme ai miei clienti, mentre loro stanno con me una sola ora: ecco a cosa devo stare attento, a non farmi assorbire.”

Ne approfitta per spiegarmi che questa è una delle “differenze insulari” ereditate dalla Sardegna che l’ha partorito e che lo differenziano da noi continentali. Questo passaggio potrebbe sembrare poco chiaro, ma credo che chi è davvero amico di qualche sardo/a capirà di che sto parlando.

Danilo racconta che negli ultimi anni si è allenato con il suo maestro Ahmed, preparatissimo tecnicamente, oltre che lo stereotipo del nordafricano. Purtroppo, la sua palestra è troppo lontana da raggiungere durante la giornata piena di lezioni, quindi da sei mesi a questa parte si è affidato a Christian: “È me ma… con dieci anni in più” mi dice serissimo “non l’ho mai incontrato di persona, ma mi accompagna con cura ed eccellente preparazione tecnica.”Copia di POST 2024 1E ora? Attualmente Danilo prosegue con le lezioni al suo studio, con qualche corso in una palestra di boxe – più per piacere che per soldi – ma mi dice che non si sente per nulla “arrivato”.

Ho fatto surf tra le onde della mia vita, questo lo devo ammettere. Vero è che sono anche alle prese con la sindrome dell’impostore che talvolta lancia qualche sassolino alla finestra della mia serenità. Mi chiedo se sto facendo davvero abbastanza, valuto ciò che è stato finora, mi rendo contro di vestire i panni dell’avvocato… che però non difende me. La mia vita ora mi piace, lavoro davvero tante ore ma sono circondato da ciò che amo: lo sport. Sento di avere tutto quello di cui ho bisogno.”

Quando gli propongo di immaginare chi sarebbe oggi se non avesse seguito questa strada, senza esitazione, mi risponde: “O un punkabbestia o un soldato, punto.” Sorrido, perché se non lo conoscessi mi stupirei ma… Danilo è proprio così.

In chiusura indago sulla spinta che prova per la sua disciplina e lui mi offre uno scorcio di ciò quella che è la sua ottica in merito.

“Sono un puglie e se devo batterti lo farò nel modo più utile e migliore possibile. Chi pratica sport da combattimento credo sia un gradino sopra gli altri, perché chi combatte per sport ha qualcosa in più che è universalmente riconosciuto da tutti gli sportivi… gode di rispetto. Anzi, o si prova rispetto o si ha paura di chi fa sport combattendo. Insomma, si è pugili dentro e fuori dalla palestra.”

Gli brillano gli occhi di una luce che so essere propria solo di chi ha creduto e crede davvero in ciò che fa, qualcuno che vede l’attività fisica non come parte della routine giornaliera ma come una via inevitabile da percorrere.

È una cosa così viscerale che ti forgia: sei tra incudine e martello, e così cresci, ti trasformi, esisti. Devo più di tutto al combattimento. Si tratta di una catena che ha condizionato la mia vita e le sue scelte. Non ha nulla a che fare con la violenza o l’essere aggressivi: ciò mi ha formato come umano, non posso vedermi come alieno al combattimento.”Copia di POST 2024 1Anche Danilo, come tanti tra noi, è un serpente che si morde la coda. È infinito, “non-finito”, continua trasformazione, liquido, nuovo nel presente che è già passato. Non è qui – a Milano – per starci troppo tempo. Mi sottolinea che, anche se apprezza e cura tutto ciò che è la sua vita ora, si tratta solo di una delle tante tappe che costellano la propria esistenza. Anche se la quotidianità è faticosa, impegnata, il desiderio lo spinge verso il sogno di una struttura tutta sua che funzioni:

“Il mio presente – Milano, lo studio – non è un luogo in cui scelgo di sedermi: io voglio crescere. Voglio studiare, approfondire, continuare a surfare e vedere che galleggio, sempre, nonostante tutto.”

È difficile descrivere qualcuno, un caro amico oltre che un atleta esperto e una persona eccezionale, avendo poco spazio a disposizione. Scelgo di darvene una breve diapositiva, dipingerlo con queste parole, ricalcando l’uroboro che sembra tracciare anche le sue vicende – oltre che quelle di tutti noi.

Mi faccio comunque aiutare anche da un paio di fotografie che, forse con un po’ di presunzione, a questo punto, mi sento di dire vi faranno sentire come se steste stingendo la mano a lui in persona. Ora Danilo non è più uno sconosciuto.

Greta Ginevra

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"I Banditi di Sardegna, 1901"

 

 

 

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NOTE:
[1] Oplita (o “oplite”): nell’antica Grecia era un fante pesantemente armato.
[2] Dal greco, thalamos. In origine, era la parte più interna e nascosta della casa. In seguito, la camera nuziale e il grande letto coniugale, simbolo di famiglia e della coppia. Ad oggi, in linguaggio letterario e poetico, ha significato di “letto nuziale”, con allusione alla condizione di matrimonio e stato di famiglia.
[3] Modo di dire sardo, significa letteralmente “molto” o “tanto”.

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