COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE
L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.
Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.
ANDREA FERRERO
Non mi stupisco di aver trovato parcheggio vicino all’entrata: d’altronde non è orario di allenamento e il box è vuoto. I pochi passi che mi separano tra il sedile della mia auto e il cancello mi fanno uno strano effetto, un déjà-vu fin troppo nitido, ma è solo quando premo il citofono e scatta automatica la serratura che mi accorgo di cosa sento. Quello è un gesto che ho fatto mille e mille volte, e non saprei nemmeno dire un numero preciso senza sembrare esagerata. Quando varco la soglia di Crossfit Verbania mi investe il pensiero che questa è la prima volta in due anni e mzzo che ci ritorno. Eppure, lì dentro, per tanto tempo, ci ho passato anche dieci, dodici, quindici ore alla settimana: non solo è il luogo in cui mi sono innamorata nuovamente dello sport, a venti anni, ma è anche dove il mio percorso di atleta ha avuto inizio. Quella che, a mio parere, è stata una seconda adolescenza. So solo che oggi non sarei chi sono, né farei il lavoro che faccio, se non fossi passata di qui e non avessi vissuto questo box così come è accaduto. Negli ultimi due anni ho abbandonato progressivamente il CrossFit per entrare nel mondo della pesistica olimpica: è nato un altro amore. Tuttavia, ammetto, aver chiuso quel capitolo della mia vita mi muove dentro, ancora oggi, tante spinte e forze diverse. “È forse questo il motivo per cui ci ho messo così tanto a tornare qui?”Mi lascio alle spalle la pesante porta di ferro e noto che si stanno allenando un paio di professionisti. Mi guardo attorno ed è come se fossi uscita di qui ieri sera: anche Loki, enorme incrocio tra labrador e rottweiler, nonché mascotte ufficiale del box, mi accoglie facendo le feste.
Provo a sovrastare il rumore dei bilancieri sbattuti a terra e della musica che esce dalle casse: “Andre, sei su??”.
Dopo un caffè, seduti a una scrivania accanto alla stufa, chiedo ad Andrea di parlare di sé: l’ha già fatto tante altre volte, ma penso che non ci si abitui mai a dover riassumere la propria vita in una manciata di frasi.
Andrea Ferrero è un crosfitter professionista ben affermato a livello europeo e mondiale che ha praticato tante discipline sportive molto diverse tra loro, da che ne ha memoria. Oltre l’esperienza calcistica giovanile, si sofferma soprattutto sugli anni di pallanuoto ad Arona (principalmente quelli delle scuole superiori) e sulla vita di rugbista, durata dai 19 fino ai 24 anni circa. Cercando di ripercorrere la metamorfosi che ha attraversato la sua figura di atleta, scopro dettagli che fanno sembrare più “umano” questo professionista, coach e owner di un box di CrossFit. Dopo lo scioglimento della sua squadra di pallanuoto, come fanno spesso tanti giovani adulti, ha scelto di seguire un suo ex compagno di allenamento e si è dedicato al rugby.
“Insomma, sembrano due sport diversi ma alla fine sono passato dalle botte in acqua alle botte su erba… cambiava solo l’elemento in cui stavo immerso. Ora quel club ha anche cambiato nome, si è unito ad altre società limitrofe, e ricordo che quando l’ho vissuto io era una realtà piccola ma in crescita. Pensa che la nostra era addirittura la prima squadra della società: niente eredità, ci siamo buttati in campo e abbiamo tutti contribuito a creare qualcosa”.
Si sofferma con piacere a raccontarmi quanto ma soprattutto cosa questo sport gli ha trasmesso. “Sicuramente l’umiltà: quello è stato un contesto di estrema crescita, in cui non vi erano differenze tra chi ne faceva parte. Difatti, ognuno faceva tutto, diventando così parte del “tutto” in questione – dal sistemare il campo a gestire gli spostamenti, ad avere cura del materiale che utilizzavamo. Sento di dire che mi spiace non essere andato avanti in quella esperienza”.
Soprattutto, ammette, gli manca l’idea della squadra, del gruppo. Ora, la sua, è una disciplina individuale ben diversa. È necessario trovare spontaneamente il proprio why (il proprio perché) per sopravvivere e andare avanti. Tuttavia, puntualizza, il box serve a ciò: a non farti sentire solo, a creare un ambiente e una mentalità di sacrificio comune, a collegare i punti di una enigmistica che sarebbe altrimenti irrisolvibile.
Quando gli chiedo quale sia stato il passaggio tra rugby e CrossFit, non mi sorprende sentire che è tutto iniziato per caso, senza volerlo, un po’ come tutte le più grandi storie d’amore.
“Come ti dicevo, appena mi sono convertito al rugby ho iniziato i miei studi universitari. Conclusi i cinque anni di studi in Economia, a Novara, ho iniziato a lavorare a La Spezia – e così per i tre anni seguenti, fino al 2015. Quindi in settimana vivevo e lavoravo lì: ero impiegato in una società di ingegneria energetica… e poi i weekend tornavo a Borgomanero per giocare le mie partite. Questa “divisione forzata” della settimana è stata un po’ subìta da me all’epoca, perché direi che mi infastidiva presentarmi in campo i fine settimana e quasi “rubare” il posto a qualche mio compagno che si era invece fatto i suoi tre allenamenti canonici per poi non essere convocato. Riconosco anche che ero un privilegiato, perché dal lunedì al venerdì studiavo, ma altri della mia squadra lavoravano e si prendevano pure le botte al freddo, in campo, alla sera. Insomma, mi saltava all’occhio che io giocavo anche se non mi allenavo durante la settimana. Oddio, in verità, ovviamente mi allenavo – in Liguria frequentavo una palestra commerciale tappezzata di specchi e linoleum – però, ecco, non mi prendevo freddo e colpi come i miei compagni che vivevano in Piemonte”.
E poi? Cosa è cambiato?“Facciamo un passo indietro: un sabato mattina del 2011, a Milano, ho preso parte a una manifestazione organizzata dalla Reebok ed è lì che sono inciampato nel CrossFit. Così, con il mio preparatore atletico, ho iniziato a introdurlo nel mio allenamento settimanale in Liguria, per performare meglio da rugbista. Dunque, per qualche tempo l’ho utilizzato come “propedeutica”, ma è andata a finire che mi ci sono convertito totalmente. Insomma, era più comodo e pratico, diciamo, del rugby – anche valutando la questione del rispetto dei compagni di squadra cui ti ho accennato prima. Ma è nata una fortissima passione che mi ha risucchiato con potenza in questo mondo. Difatti, qualche mese dopo aver conseguito la laurea, cioè a inizio 2014, ho scelto di lasciare il rugby per frequentare stabilmente un box di Arona (provincia di Novara). Insomma: a settembre dello stesso anno ho preso parte alla mia prima competizione ufficiale, nel 2015 ho acquisito la mia prima abilitazione come istruttore di CrossFit e… nel 2017 ho finalmente scelto di aprire il mio box qui, a Verbania”.
Il discorso continua senza bisogno che io faccia domande, vedo che Andrea ripercorre le memorie con piacere. “Beh, ora ho un bagaglio di esperienza ampio, ma dieci anni fa (ndr. appena approcciata questa disciplina) è innegabile che la voglia di fare fosse diversa. Non sto dicendo che mi sono stancato, però ammetto che adesso, un po’ per la monotonia che è naturale subentri dopo così tanto tempo, un po’ per le vicende accadute negli ultimi Games[1] e tutto ciò che è diventato l’ambiente CrossFit… beh, vivere questa quotidianità, per me, ha cambiato significato più e più volte”.
Non starà più in acqua con regolarità, ma Andrea è comunque del segno dei Pesci: è nato nel 1989, e mi spiega che è uno degli ultimi competitor (crosfitter professionisti) della sua generazione. “Siamo rimasti in pochissimi, della mia età, a fare gare. Un po’ perché qualcuno ha preso qualche strada sbagliata, un po’ perché iniziamo a non essere proprio “freschissimi” e un po’ perché, come ti dicevo, a una certa diventa dura continuare a testa bassa in questo sport. Tra l’altro, ovviamente, qualcuno ha anche scelto di dedicarsi alla famiglia, ai figli… insomma, di cambiare”.
Mi viene naturale chiedergli come si vive la condizione di atleta professionista, come si riesce a gestire l’apparenza di “fortunato” o “predestinato” che a volte rende meno umani coloro che ce la fanno agli occhi degli amatori o di chi non pratica alcuna disciplina. Si apre una riflessione molto interessante in cui mi chiarisce più volte di non essersi mai sentito speciale, rispetto questo argomento.
“Nel CrossFit è necessario essere una persona, e mi viene da dirlo in inglese, grounded (nel senso di “con i piedi per terra”). Montarsi la testa non è un atteggiamento che ti porta lontano. Dall’esterno posso sembrare favorito dal destino o dai geni, ma dietro a ciò che sono c’è e c’è stato tanto lavoro. Ho sempre fatto sport e movimento, tutt’ora, appena ne ho occasione, provo qualsiasi disciplina all’aria aperta, sull’acqua, appeso a qualche roccia. Ecco, non lo nego, è possibile che vi sia una predisposizione al movimento: ricordo che anche da bambino, giocando con i miei amici e cuginetti, ero quello più agile e propenso a “buttarmi”… ho passato l’infanzia a fare moltissima attività e adoravo arrampicarmi sugli alberi per rubare la frutta (ndr. ormai è tutto caduto in prescrizione, quindi lo posso scrivere).”
“Scherzi a parte, credo che sia proprio vera quella frase che recita il lavoro duro batte il talento quando il talento non lavora. Insomma, impegnarsi porta non solo risultati ma anche tanta fiducia in sé, nelle proprie capacità – che è fondamentale tanto nello sport quanto nella vita”.
Un po’ all’inglese o, forse, con accezione dialettale, aggiunge che anche la confidenza è una qualità che ha costruito ben solida in questi anni di allenamenti continui: sapere di sentirsi all’altezza, non temere di sbilanciarsi, essere anche un po’ spregiudicati, a volte. “Tante volte” continua “alcuni atleti performano bene in allenamento, ma al momento della gara si irrigidiscono. Credo che il CrossFit aiuti a costruire anche questa attitudine, diciamo, “elastica”. Imparare ad allenarsi spingendo al massimo, in affanno, e gestendo il carico (pesi, bilanciere, altri strumenti di allenamento) in queste condizioni, probabilmente consente di sviluppare una capacità di adattamento tale da permettere di andare avanti, nonostante tutto. Anche gli sport situazionali[2], in generale, direi che hanno questo esito: credo che ciò comporti una sorta di transfert nella vita”.
Il nostro ragionamento ci porta a un pensiero che guida il mio lavoro, quotidianamente, ovvero l’affermazione per cui lo sport è una palestra di vita. E come non essere d’accordo.
Mi ricordo che oltre che con un atleta professionista, sto parlando anche con un istruttore, e gli chiedo di approfondire questo aspetto del suo lavoro. “Il mio obiettivo, in quanto coach, è far star meglio chi viene al mio box ad allenarsi, indipendentemente dal risultato che ottiene. Sento l’urgenza di far capire loro che il nostro corpo si sa muovere anche in spazi diversi da quelli ordinari, provo a mostrare loro come sfruttare spazi motori che non hanno mai preso in considerazione”.
Mi astraggo per un secondo dal qui e ora, tuttavia mai smettendo di ascoltarlo. Diciamo che con la mia professione sono abituata a pensare contemporaneamente “su più piani”, ed è quello che per un istante mi accade ora. Non può ricordarselo, anzi, nemmeno lo può sapere, ma ciò che mi ha dato il coraggio di mettere piede nel suo box è stata proprio una telefonata con lui, diversi anni fa. In verità, mi ci sono volute settimane prima di fare il numero trovato online e chiedere informazioni al proprietario di CrossFit Verbania. Temevo di non essere all’altezza, ero fuori forma e avevo interrotto bruscamente e in malo modo l’attività sportiva, un paio di anni prima. Dopo avergli chiesto gli orari, ho pensato bene di mettere le mani avanti e avvisare Andrea che, sì, sarei venuta a fare la classe di prova, però non ero per nulla allenata e forse era meglio se stessi solo lì a guardare per capire se fosse qualcosa alla mia portata. “Non bisogna essere allenati per iniziare a fare CrossFit, bisogna iniziare a farlo per essere allenati”… e così, per sei anni, questo è proprio quello che ho fatto.
“C’è da dire che fare sport è diverso da “fare attività fisica per stare bene”: lo sport richiede tutt’altro tipo di impegno. Oltretutto, la differenza la fa anche il fattore mentale, cioè come ci si considera rispetto questo argomento. Per esempio, quando giocavo a rugby, direi che praticamente tutti i compagni di squadra non si consideravano “sportivi” e non perché non si potesse effettivamente esserlo per via della categoria (giocavamo in serie C), ma perché non si dava priorità a certe cose… come ti stavo dicendo prima, considerarsi “atleti” implica un impegno mentale e una serietà, una profondità più ragionata, diciamo, riguardo all’approccio con il proprio sport. Nella mia disciplina, tutti i partecipanti della classe sono considerati “atleti” perché hanno uguali necessità e bisogni di chi è professionista: insomma, entrambe queste categorie svolgono lo stesso tipo di attività, anche se scalata[3]”.Anche la vita di Andrea ha conosciuto battute di arresto e momenti di sconforto. Infatti, mi confida un’esperienza che l’ha segnato nel profondo, nonostante gli abbia insegnato tanto. Dieci anni fa ha condiviso con il suo gruppo di amici un lutto che nessuno si sarebbe mai aspettato di vivere:
“Facevamo tantissime attività insieme, dall’alpinismo all’arrampicata, dal freeride (sci) ai giri in bici. Tra noi tutti spiccava Matteo, soprannominato “Balza” per via del suo cognome. Ecco, lui era un ragazzo fragilissimo e potente allo stesso tempo, qualcuno che aveva un modo di sentire viscerale, direi… possedeva una sorta di scintilla divina e la portava in tutto ciò che faceva. Insomma, era un estremista della fatica e faceva tantissimo per poter sentire e vivere ciò che compieva… non so se mi spiego. Ha avuto una vita parecchio difficile, questo devo dirlo. Ad ogni modo, nel 2014, ha avuto un incidente in decollo con il parapendio, lanciandosi dai 4000 metri.”
Andrea definisce quel periodo come un “momento strano”, che gli ha aperto gli occhi su una ovvietà che non è per nulla scontata, in realtà: “In questo modo ti rendi conto che qualcuno può andarsene facendo qualcosa, sì, di folle ma… che per lui era la vita. E allora vieni a patti con ciò, lo accetti, e capisci che è giusto vivere – senza esagerare – ma facendolo… insomma, vivendo sul serio!”.
Probabilmente, ipotizza, è proprio questa vicenda tragica ad essere stata per lui un turning point, le sliding doors che tutti attraversano anche più volte nella propria vita. Difatti, senza traccia di esitazione, conclude che ciò gli ha dato la spinta giusta per passare dalla vita di ufficio (a La Spezia) a quella di sportivo che, lo vediamo tutti ora, l’ha portato davvero lontano. “Non a caso, dopo ciò che è successo a Balza, molti altri del nostro gruppo hanno svoltato la propria vita in modo non indifferente”.
Questo aneddoto emozionante ci aggancia immediatamente alla riflessione per cui sente la sua dimensione di istruttore come un insieme di contributi di coloro che ha incontrato nel suo cammino, in diversi contesti di vita: “Potrei dire che la mia immagine di allenatore è composta da tanti pezzetti di puzzle che, visti da lontano, formano appunto chi sono ora. Credo sia fondamentale carpire il buono da chi incrociamo, farlo nostro… insomma, interrompere il trauma generazionale che possiamo aver vissuto con gli allenatori incontrati”. E così, si sofferma per un attimo a ricordare la sensibilità di Attilio, una piccola preziosa tessera di puzzle rugbistica.
Ovviamente sono presenti diverse esperienze negative, momenti in cui è stato necessario fare una cernita delle tessere che la sorte gli inviava per completare il proprio quadro non solo di coach, ma anche di “Andrea” in generale. “Con il tempo ho imparato a essere un po’ più egoista. Ciò che intendo è che essere eccessivamente giver (nel senso di “altruista”) funziona ma fino a un certo punto. Con le cattive maniere ho imparato che è necessario valutare in modo più ampio questa mia attitudine: a volte dire di no non significa fare male agli altri, ma fare bene a sé e, di conseguenza, anche agli altri”. Probabilmente quello dei confini è un tema parecchio difficile da gestire nei panni di allenatore: mi sottolinea, difatti, quanto sia importante lavorarci affinché il “sì” sia davvero reale, perché dire sì a tutti significa solo dire di no. “Ponendo chiari limiti, pian piano, ho notato che gli altri erano più propensi a rispettarli, oltre che accettarli. E tutto è diventato più semplice. Se il “sì” è per tutti, allora perde di rispetto”.
Approfitto di questa apertura per chiedergli cosa vorrebbe che gli altri sapessero di lui atleta professionista, di lui “quello forte”, di lui “prescelto dagli dei” e “beato lui che è così”. Con tranquillità Andre si riaggancia a ciò che già mi ha detto riguardo al modo in cui vive la propria realtà di competitor:
“Nonostante all’apparenza potrei sembrare sempre super tranquillo e deciso, ciò che non traspare è la sensazione di incongruenza interiore che talvolta provo rispetto a come performo o quello che mostrano i risultati ottenuti. Soprattutto negli ultimi anni che, come ti dicevo, si inizia a sentire il peso di tutto il lavoro fatto e da fare. Cioè, io sono capace di alternare tre mesi in cui mi alleno davvero sporadicamente a tre mesi in cui vado a manetta. Ormai sento di riconoscere e riuscire a gestire queste mie modalità di funzionamento: ci convivo e sono parte di quello che sono.” Insomma, consapevolezza significa accettare tutto di noi, non solo quello che ci fa comodo o ci piace.Provo a coglierlo di sorpresa e andare più sul personale: sono curiosa di sapere cosa farebbe subito, domani, se non avesse la paura di farlo. Il suo linguaggio del corpo parla chiaro, mostra alcune micro e macro espressioni della sorpresa: sopracciglia alzate, un breve respiro che rimane trattenuto finché non sorride e si rilassa, deciso a raccontarsi ancora. Un po’ come quando a scuola la maestra chiedeva le tabelline e, per prendere tempo e pensare, l’interrogato ripeteva la domanda, anche Andre esita qualche secondo:
“Cosa farei se non avessi paura? Probabilmente creare una situazione imprenditoriale totalmente delegata in modo che io possa viaggiare per il mondo e fare esperienze di sport, di posti mai visti e… di vita, insomma”. È chiarissimo quanto il cordone ombelicale che lo lega al suo box sia fortissimo, e fa fatica a tollerare l’idea di lasciarlo per diverso tempo “Questo posto fa parte della mia identità. E poi, sinceramente, avrei anche paura di non riuscire a tornare indietro così facilmente. Dopo una tale esperienza come potrebbe essere semplice riassorbirmi nella mia quotidianità, sebbene la ami? In questa ottica ci sarebbe la probabilità di iniziare a considerare lo stare qui come una sorta di convenzione sociale, tipo fare il pane la domenica, o sposarsi.”
Dopo quasi due ore inizio a tirare le fila delle nostre parole e intravedo un otto rovesciato, o un uroboro, in sotto impressione alle immagini che mi ha regalato: in che direzione sta andando Andrea, oggi?
“Comunque, la mia vita attuale non è finalizzata a questo desiderio – per ora – inespresso, però lo tengo lì. Al momento mi godo quello che sto facendo, la mia vita, ciò che ho costruito con tanta passione, fatica, e tempo. Non sembra, ma è già un bel lavoro. Ti ripeto: so di essere fortunato. La mia situazione famigliare, ciò che è accaduto nella mia vita, il contesto in cui sono immerso tutt’ora sono probabilmente state la mia fortuna: hanno consentito le condizioni adatte per iniziare questo progetto, ma soprattutto per portarlo avanti. Non da meno, allo stesso tempo, mi hanno insegnato ad essere grato di ciò che si può fare e si fa”.
Condivido appieno le sue parole e prima che abbia il tempo di intervenire mi anticipa un’immagine che sento, sotto diverse forme, molto vicina a me: “Ma ci pensi? Ovviamente può sembrare un peso alzarsi al mattino presto, di inverno, per venire ad aprire e scaldare il box gelato. Ma la verità è che questo è un privilegio: sto facendo ciò che amo. La sindrome di Calimero non aiuta, crea solamente un circolo vizioso che ci affossa.”
Sembra avermi tolto le parole di bocca: anche io dico sempre che sono tanto fortunata. Ma riconosco che ho lavorato per arrivare fin dove sto ora… e me la godo.
Probabilmente “uroboro” non è solo cambiamento continuo, ma anche un imparare a scoprirsi nuovi rimanendo sempre gli stessi. Cogliere i frutti di ciò che si è stati e alimentare la versione di sé che, ora, sentiamo essere noi e noi soltanto. Il mio coach lo conoscevo già, ma non mi aspettavo di ritrovarlo così tanto in me – e magari non sono l’unica, giunti a questo punto. Quali tessere del puzzle scegliamo consapevolmente per creare il nostro scheletro e quali senza pensarci?
Leggi qui per il primo numero https://tinyurl.com/4m6etp25
NOTE:
[1] I CrossFit Games sono una competizione atletica mondiale che si svolge ogni estate dal 2007.
[2] Gli sport situazionali (o “di situazione”) sono discipline in cui l'esito dell'azione, quindi il risultato, non dipende esclusivamente dal gesto tecnico e dalla prestazione fisica, ma dalla capacità di trovare le giuste risposte di adattamenti a stimoli diversi (rugby, calcio, basket, tennis…)
[3] In gergo, questo termine si riferisce al riadattamento e aggiustamento dei carichi di peso e dei movimenti (generalmente diminuendoli o semplificandoli) affinché siano gestibili da chi li affronta, compatibilmente con il suo livello di allenamento e forza.
📢 Si è tenuto oggi, presso la scuola militare Teuliè, l'incontro del Comitato Regionale con i Presidenti delle Società Lombarde. All'evento hanno partecipato più di 150 persone provenienti dai club e ha visto numerosi interventi.
🏅 Il Presidente CRL Maurizio Vancini ha subito ringraziato il Tenente Colonnello Bianco per l'ospitalità, il quale ha tenuto un breve discorso sottolineando i valori che accomunano il rugby e la scuola militare, dove "Eccellenza chiama Eccellenza".
🔵 Claudia Giordani, Vice Presidente CONI, e Marco Riva, Presidente CONI Lombardia, hanno specificato quanto il rugby e il suo principio di sostegno siano importanti nella vita quotidiana.
🏉 Paolo Vaccari, Vice Presidente FIR, specifica quanto serve costantemente un impegno di regione a tutto tondo, dove i sacrifici servono per convogliare energie positive perché solo così si può ottenere quantità e puntare a tanta qualità, così da essere sempre un comitato di riferimento.
🏙️ Alessandro Rapinese, Sindaco di Como, ha specificato quanto questo sport deve essere preso d'esempio anche sul mondo del lavoro, dove è importante la professionalità dove si è antagonisti ma sempre con rispetto, come alla fine di ogni match di rugby.
🟦 Erika Morri, Consigliera FIR, ha sottolineato come il rugby costruisce carattere dal 1923, perché questo sport punta ai muscoli e al cervello spostando il focus dalla forza fisica alla forza mentale.
🏆 Infine, le benemerenze assegnate, da parte del Presidente CIAR Franco Cenobi, hanno chiuso questa fantastica mattinata.S ono state consegnate le benemerenze per l'ovale di bronzo, per l'ovale d'argento, per l'ovale d'oro e, per i 40 anni di vita passati nel mondo del rugby, l'ovale d'oro con fronda.