COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE
L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.
Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.
SILVIA GAUDINO
Quando ho contattato Silvia, al cellulare, credevo che avremmo organizzato la nostra chiacchierata in qualche locale di Milano… ma mi sbagliavo. “Diciamo che mi riuscirebbe difficile… io sono a Salerno!” e così abbiamo scelto di passare quasi due ore in videochiamata. Dopo qualche battuta iniziale ci sciogliamo e mi ritrovo immersa in un piacevole scambio di opinioni che accorcia drasticamente la distanza (anche fisica) tra noi due. Ci penso su un attimo, non so bene da dove iniziare perché le ho già riassunto al telefono il proposito dei pezzi che scrivo e il motivo per cui le ho chiesto di dedicarmi del tempo, quel pomeriggio. Così, semplicemente, dimenticandomi se l’uroboro prima nasca o prima ancora si distrugga, le domando dove si trova ora: “ora” rispetto a ieri ma anche domani, oggi, il presente – che si chiama così perché non è altro che un meraviglioso dono irripetibile.
“In realtà non c’è un prima e un dopo, rispetto alla me atleta e alla me allenatrice, di ora: ho giocato a rugby dal 2001 al 2017 per poi rimanere in questo splendido mondo perseguendo la carriera di coach. E, credimi, allenare non era nei miei piani, quando ero ancora giocatrice. Non per un motivo preciso, semplicemente… non ci pensavo! E invece, con il tempo, mi è sembrato giusto restituire qualcosa a questo sport che mi ha dato tanto, ma tanto: è stata una scuola di vita.”
Silvia mi racconta che si è approcciata al rugby relativamente tardi, a diciassette anni, per poi non abbandonarlo più. E ciò che fa oggi è aiutare a mantenere vivo e pulsante un terreno difficile da coltivare.
“Sicuramente, qui, a Salerno, viviamo una realtà meno sviluppata del Nord Italia in generale. Mi dedico alle categorie dei bimbi e dell’intero minirugby, più una parte di juniores femminile della regione. In realtà, nello specifico, con la seniores maschile, mi occupo della specialità della fase di conquista (mischia e touche)”.
Le chiedo di descrivermi come sia lavorare con tanti gruppi così diversi tra loro, quali le differenze e quali le particolarità: “Ti dico, inizialmente mi sono mostrata titubante alla proposta di allenare la maschile… e invece ha funzionato!.”
Inevitabilmente, con la ex capitana delle Azzurre si apre un discorso riguardo al rugby femminile e le varie sfide che sono all’ordine del giorno per questa fazione e chi ne fa parte. Non si tratta di un dialogo banale o costellato di luoghi comuni: mi spiega dunque che, quando ha iniziato a giocare, il pregiudizio piuttosto che provenire dai “non addetti ai lavori”, nasceva invece dai suoi colleghi uomini e che ha assistito al salto di qualità necessario alla visibilità del rugby femminile “Pensa, prima le partite erano trasmesse in diretta solo online dalla Federazione Italiana Rugby, e poi, pian piano, hanno iniziato a vedersi anche in tv.”
Le parole che spende al riguardo le sento molto vicine a me, alla mia vita, le mie passioni e idee:
“Anche se faccio uno sport che, a priori, può essere considerato prettamente maschile e di forza, di scontro, ciò non significa che il mio impegno sia di serie B o che io sia meno donna…. Rimango tale lo stesso! È però anche necessario dire che, talvolta, si forza troppo la mano e – anche se con le migliori delle intenzioni – si rischia di auto-ghettizzarsi. Ti faccio un esempio: ricordo che, quando giocavo, abbiamo deciso di cambiare il coro finale che recitava Per il rugby femminile, hurrà!, perché a me non piaceva proprio e l’ho contestato. Insomma, ma che è? Rugby femminile, sì… e quello maschile? Il rugby è rugby e basta.”
Mi sento di condividere con lei alcune esperienze personali che, in effetti, convengono con il parere di Silvia per cui lo sport femminile sia ancora un po’ “indietro” nel nostro Paese. In realtà, gli aneddoti che le porto non risalgono a più di 12 o 13 anni fa, quando avevo attorno ai quindici anni: se ci penso, non è passato tanto tempo da quando non ho trovato una femminile di rugby nella città in cui sono cresciuta (né a diversi chilometri di distanza), o da quando un allenatore di pallanuoto mi ha proposto qualche allenamento con l’unica squadra maschile, precludendomi però in modo chiro di fare palestra insieme ai ragazzi perché… ma perché? Non ho mai ricevuto una risposta sensata. Quel che mi fa sorridere è che, molto probabilmente, è anche grazie a tutti i “no” che ho ricevuto in merito se oggi mi occupo di spostare pesi e lanciare bilancieri sopra la mia testa: non c’è nulla che mi faccia sentire forte, capace e me stessa quanto la pesistica olimpica.A mo’ di gamberi, facciamo un passo indietro e cerco di chiarire come sia avvenuto l’incontro con questo sport, specialmente se in età “avanzata”.
“Sai, mio papà faceva l’allenatore – era un ex giocatore – e quindi mi ci sono trovata per curiosità. Prima del rugby ho fatto tantissimo sport, anche molto diversi tra loro… individuali, di squadra… pattinaggio artistico su ghiaccio, pallavolo e atletica. Quando però ho iniziato con il rugby, ovviamente non c’era la femminile dove abitavo io (ndr. a Monza) e quindi sono dovuta andare in Veneto alla ricerca di una squadra. Ecco perché e come è nata la femminile al Rugby Monza: in realtà è stata una idea partorita in modo abbastanza casuale, con passaparola e pubblicità che ha raccolto diverse ragazze orfane di club e alla ricerca di una realtà vicina che consentisse loro di allenarsi senza fare trasferte dispendiose e difficili da sostenere nel lungo periodo. Ed è così che nel 2003-2004 abbiamo giocato il nostro primo campionato, e dopo 10 anni abbiamo vinto lo scudetto. Sono bei ricordi, soddisfazioni.”
Suona una domanda un po’ ingenua, ma le chiedo lo stesso come sia passata da sport tanto diversi per arrivare a quello che sarebbe stato anche il suo secondo lavoro. Diciamo che anche in questo contesto mi sento molto simile a Silvia: quando racconto di aver praticato per tredici anni danza classica, le persone stentano sempre a crederci e pensano stia facendo una battuta.
“Be’ diciamo che, nonostante mi piacessero tutte, le altre discipline non mi soddisfacevano appieno. Soprattutto gli sport individuali, lì percepivo una assenza di qualche sorta. In effetti, la pallavolo è stata una parentesi di squadra, ma mi sento di dire che non percepivo davvero il gruppo né la complicità che invece ho trovato e scoperto nel rugby. Insomma, mai provato niente di simile prima né dopo questo sport.”
Sono tanto curiosa di sapere che si prova a vestire la maglia Azzurra, a stare in Nazionale e rappresentare addirittura l’intero gruppo: “È un sogno… per me è stato proprio un sogno che si avvera” le brillano gli occhi e capto chiaramente le emozioni che quelle parole le suscitano “Amo la competizione e lo sport mi appaga completamente. La prima convocazione mi è arrivata per raccomandata, a casa: ero la più piccola della squadra e una delle poche lombarde in un gruppo prettamente veneto. Eppure, sono state tutte molto accoglienti fin da subito. Ovviamente la paura e la titubanza erano sentimenti che ho inevitabilmente provato per i primi tempi, ma è stata un’esperienza estremamente arricchente. Indossare quella maglia e ricoprire il ruolo di capitana è una responsabilità che ho sempre preso molto seriamente: devi dare il buon esempio e cercare sempre di essere al massimo – sia mentalmente che fisicamente – e non sempre è facile. Per esempio, c’è stato un periodo in cui non riuscivamo a uscire da un mood di sconfitte e ci mancava davvero molto tornare a vincere… avevamo perso un bel po’ di fiducia in noi stesse ma pian piano siamo riuscire a riacquisire la consapevolezza di potercela fare e ne siamo uscite più forti.”
Riguardo alle sconfitte, Silvia mi specifica un grande verità. Conferma che sono proprio le partite perse quelle che ci si ricorda di più, come quella benedetta (ndr. o maledetta?) qualificazione alla coppa del mondo che è stata mancata per un soffio… “Ti dirò, brucia ancora!”.Proprio quando stavo per aprire il discorso, sono preceduta: “Tra l’altro, ho anche attraversato un periodo di stop perché mi sono dedicata all’esperienza della maternità. Avevo già tra i 35 e i 36 anni quando è accaduto, e sinceramente non pensavo che sarei tornata a giocare. Mi ero trasferita da poco da Monza a Salerno, e dovevo ricostruirmi una vita extra rugby, diciamo… ho avuto alcuni dubbi ma il coach ha appoggiato la mia decisione e l’anno dopo la nascita di mio figlio mi sono presentata ai mondiali. L’allenatore mi ha detto che eravamo arrivate fino a lì anche grazie al lavoro che avevo fatto insieme a loro, e questo mi ha convinta, ho scelto così di provarci. Non è stato affatto semplice riprendere, perché ho avuto un parto cesareo che, si sa, porta con sé una degenza lunga e dolorosa che può impedire anche per lungo tempo alcuni movimenti, in più era necessario organizzarsi con il bimbo piccolo – oltre che il mio lavoro di contabile e gli allenamenti immancabili. Tra l’altro, per un periodo ho anche faticato a riprendere peso e a tornare in forma e massiccia come in precedenza.”
Quello che sento a me sembra una realtà complicata da gestire, che richiede una quantità di impegno ed energia che mi spaventa anche un po’, lo ammetto. Silvia ci tiene però a chiarire quella di essere anche mamma è stata una scelta consapevole, e che “Non sono né la prima né l’ultima ad aver fatto un figlio e aver riniziato a fare sport. Io, ne sono davvero felice!”.
Mi sembra doverosa una piccola parentesi riguardo gli sforzi e i sacrifici che si compiono nella vita, in nome di ciò che crediamo e che vogliamo compiere. Di quanto sia forte la spinta di un motore che è alimentato dall’amore per ciò che noi riteniamo importante. “Sacrifici, dici? Credo che se vale la pena allora non si possano chiamare sacrifici. Ho sempre lavorato full time: anche in nazionale, fino a non molto tempo fa, non eravamo considerate atlete professioniste. Ad oggi sembra che le cose vadano meglio per le mie ex colleghe, però noi non percepivamo uno stipendio ma solo qualche rimborso spese. Ad ogni modo, ho sempre pensato che, quando questa vita avrebbe iniziato a pesarmi, solo allora mi sarei fermata. Più che un sacrificio è stato solo tutto un po’ complesso: non ho potuto partecipare a tutte le competizioni cui avrei voluto, ma le ferie le usavo per quello. Insomma, il mio datore di lavoro mi veniva in contro, era accomodante, ma non potevamo fare i miracoli. Piuttosto, ci sono compagne che hanno anche perso il posto di lavoro, che hanno rinunciato a tanto o dovuto prendere scelte importanti. Soprattutto dal 2007, quando siamo entrate nel Sei Nazioni e abbiamo iniziato anche i tornei di rugby a sette. Trovandoci in una condizione di semiprofessionismo, in questi termini, è stato difficile per qualcuna tra noi pensare a un futuro o a un piano B.”
Silvia mi ricorda che obiettivi diversi corrispondono a percorsi diversi. Tutto ha un prezzo, un costo, e spesso siamo proprio noi a scegliere se ce lo possiamo permettere, se si tratta di un azzardo o di una scommessa potenzialmente vincente. Per dirla breve: costi e benefici.“E cosa ti ha portato ad apprezzare lo sport? Cosa hai ereditato dalla tua esperienza di atleta?” le chiedo.
Senza esitazione replica che ciò che ha avuto in cambio per una vita votata al rugby è stata una forte sicurezza di sé, che si è ritrovata anche fuori dal campo: “Sono sempre stata una persona riservata e anche un po’ timida. Ma questa vita mi ha aiutata parecchio sotto questo aspetto”.
Forse azzardo un po’, ma forte del clima sereno della nostra chiacchierata le chiedo come e se abbia mai dovuto gestire la propria immagine corporea, se abbia mai provato straniamento di fronte al proprio fisico non proprio convenzionale per il prototipo femminile di circa 20/15 anni fa – in cui lo stereotipo della donna magra e filiforme dominava decisamente l’immaginario dello standard di bellezza. Effettivamente, la sua risposta non mi stupisce, anche perché è quello che semplicemente sento anche io – di nuovo, capisco di condividere con lei un altro punto di vista forse non proprio popolare: “Sinceramente non ho mai avuto problemi di alcuna sorta, né mi sono fatta paranoie. Sapevo che era importante prepararsi fisicamente e lavoravo tanto in palestra per rafforzarmi ed evitare infortuni – che, difatti, fortunatamente, non ho mai sperimentato in maniera grave. Mi sono sempre piaciuti i fisici sportivi e atletici, anzi. Beh, forse l’unico side effect indesiderato erano gli occhi neri e i vari segni che la partita poteva lasciarmi e che durante la settimana facevano preoccupare chi mi era vicino. A volte sembra peggio di quello che è realmente, ma fa parte del gioco.”
Con curiosità cerco di capire quale sia stata la transizione da atleta ad allenatrice, come sia avvenuto il passaggio in cui si è riposta nell’armadio la maglia Azzurra e quali siano state le emozioni collegate a questa fondamentale tappa della vita della Gaudino. Insomma, come al solito, vado alla ricerca e infine scovo l’uroboro che sento troverò in chi condivide la sua storia con me.
Silvia mi confessa di aver smesso di giocare perché ha voluto smettere. In effetti, sentiva di aver dato tutto quello che poteva e, al contempo, le priorità della vita erano cambiate, come anche le tempistiche dei vari impegni. “E poi, non era solo il mio sport, anche quello di altre. Sono stata felice di smettere proprio come sono stata contenta di aver fatto questa esperienza. Ad oggi non mi manca il campo e sono serena. Ovvio, qualche allenamento lo faccio volentieri, ma non gioco partite. Sento che se avessi continuato non è che sarei stata più contenta di ora, perché io ho sempre preteso tanto da me e non credo che sarei stata in grado di fare meglio di quanto già avevo fatto in passato, anche da più giovane.”
Tra l’altro, ammette, avendo provato entrambe le fazioni, è probabilmente più difficile fare l’allenatrice rispetto che l’atleta, perché si deve pensare a organizzare e gestire gli allenamenti, imparare e tenersi aggiornati, ricoprire un ruolo “da più grandi” (ndr. di età? Di adulti responsabili? Mi fa sorridere questa frase)… mica solo ad eseguire ciò che qualcuno le dice di fare, come quando era “soltanto” atleta (ndr. ride, dicendolo). Non che sia semplice, ovviamente “Il giocatore sa cosa fare perché c’è qualcuno che lo indirizza, ma è comunque una bella faticaccia”. Silvia ci tiene anche a spendere parole gentili nei confronti della mia professione e della mia collaborazione con FIR Lombardia: ricorda ancora con piacere degli interventi che una psicologa dello sport (nonché collega che mi ha guidata durante i miei primi passi nell’ambiente, con estrema disponibilità) ha attuato in Nazionale con lei e le altre compagne. “Sono state attività interessanti e che ho gradito parecchio. Mi ricordo che provavamo tanta curiosità all’inizio verso la sua figura, perché non era un qualcosa di conosciuto, all’epoca. Eppure, i lavori in cui ci siamo cimentate sono stati davvero utili per capire noi stesse e unirci ancora più come squadra.”Quando, in chiusura, le chiedo perché avrebbe senso fare sport, a cosa servirà mai farsi placcare e ruzzolare per un campo di erba e terra, lei mi risponde che – ovviamente – fare attività fisica significa molto di più che questo. “Lo sport ti insegna moltissimo su chi sei, è muoversi, essere attivi e provare a stare in salute. Inoltre, personalmente, spingo mio figlio a fare sport di squadra in modo che faccia gruppo: è figlio unico e credo che questo sia un mezzo utilissimo per imparare a stare con gli altri, socializzate, imparare a perdere e a vincere insieme.”
Sapendo di avere ancora poco tempo a disposizione, provo ad afferrare l’ultimo brandello di maglia Azzurra a cui posso avvicinarmi, e forzo ancora su quali avrebbero potuto essere le strade alternative se non fosse diventata una rugbista. Ancora una volta, però, Silvia usa poche e chiare parole: “Non ho mai pensato a me in altri termini, diciamo. Come non ho mai pensato di mollare: ho avuto un allenatore con cui non andavo molto d’accordo e che ha messo alla prova la mia serenità in campo, ma quello è stato un incidente isolato. Piuttosto, all’inizio della mia carriera, mia madre mi chiedeva di non fare troppo pubblicità riguardo al mio sport con i suoi colleghi di lavoro, ma ha poi totalmente abbandonato questo atteggiamento e, insieme al papà, i miei genitori sono stati sempre i miei tifosi numero uno. Non me la sono mai presa, infatti. Mi sento di dire che ho avuto una carriera sportiva soddisfacente e che si è incastrata appieno con la mia vita privata.”
Ciò che mi è rimasto impresso più di tutto sono la sincerità e la spontaneità di questa atleta, l’umiltà con cui ha accettato di raccontarmi una parte di sé tanto intima quanto unica. Ho apprezzato particolarmente l’idea per cui i sacrifici che si fanno volentieri… non sono sacrifici ma investimenti. In effetti, solo ora ci penso, io per prima ricordo sempre ai miei clienti che il tempo della nostra vita non è altro che tutto quello che abbiamo, la cosa più preziosa che ci appartiene: decidere come impiegarlo sta a noi ed è una grande responsabilità – oltre che un’occasione.
Leggi l'articolo precedente https://tinyurl.com/bddhyvbu