COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE

L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.

Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.

Copia di POST 2024 1

FILIPPO SCALVI

“Ti ho girato il suo numero, gli ho anticipato di cosa scrivi ogni mese, ma sentilo subito perché mi sa che i prossimi giorni sono gli unici in cui è ancora raggiungibile: ha preso parte a un progetto stupendo su un isoletta sperduta ma… vabbè te lo racconterà lui”.

Quando ho ricevuto la chiamata di Pietro non mi aspettavo conoscesse il diretto interessato della quinta uscita della mia rubrica.

“Ti racconto brevemente la sua storia, così anche tu arrivi un po’ più preparata al vostro incontro: lo conosco da tantissimo. Ha raggiunto traguardi importantissimi, ha sempre lavorato sodo, si impegna in imprese davvero straordinarie… e per me è come un supereroe”.

 Il quadro generale che mi ha regalato Pietro è, in effetti, singolare e notevole: parlerò con un ragazzo, ex atleta Azzurro di rugby, che oltre ad essersi laureato in medicina ha anche intrapreso un percorso di specializzazione che lo tiene lontano da casa per lunghi periodi e, tra l’altro, al momento opera all’estero continuando la propria formazione professionale. Sono sempre curiosa di scoprire chi ho davanti, durante le chiacchierate che scambio per questa rubrica, però stavolta voglio proprio capirci meglio.

Sembra che Filippo Scalvi sia un profilo che nasconde un perfetto uroboro sottopelle: ma, quindi, chi è?

In effetti riusciamo ad arrangiare la nostra chiacchierata con precisione di orario e giorno perfetta, ovvero quando sarà in aeroporto, tra uno scalo e l’altro, per raggiungere quella famosa isola che già Pietro mi aveva citato. Nemmeno a farlo apposta, e ciò accade al mattino, Filippo mi avvisa per messaggio di un ritardo aereo che avrebbe rischiato di far saltare il tutto: alla fine, per fortuna, riusciamo ad incastrare. Apprezzo immediatamente il suo spirito di adattamento, che lo spinge a stare al telefono per un’ora abbondante con una sconosciuta (io), accettando di rispondere a domande aperte e vaghe che avrebbero potuto confondere (lui) e il tutto monitorando lo stato degli aerei che avrebbe dovuto prendere in giornata.

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“Ciao, chi sei?” amo partire dal presente, quindi forse lo spiazzo mettendolo di fronte a un oceano di opzioni con cui ribattere. In realtà, scelgo deliberatamente di non essere eccessivamente direttiva perché a me interessa ascoltare e vedere come chi ho di fronte si muove e si sposta all’interno di ciò che ho chiesto.

Filippo, invece, ribatte facendo qualche metro di retromarcia, partendo dal passato e dandomi una cornice che crea un riassunto chiaro e conciso: “Ho quattro fratelli maschi, anche tre di loro hanno giocato a rugby, mentre il maggiore – nonstante una piccola parentesi del medesimo nostro sport – si è dedicato all’equitazione. Difatti, io mi sono appassionato a questo sport attorno ai quattro o cinque anni perché vedevo Giovanni (ndr. il suo maggiore “prossimo”) che ci giocava. Ho partecipato nel settore propaganda alle giovanili con il Rugby Rovato, e a 16 anni sono entrato nell’Accademia FIR con sede a Parma. Ovviamente, ciò ha coinciso con il mio trasferimento in quella città e lì vivevo in convitto, dividendomi tra gli allenamenti di tre ore al giorno dell’Amatori Parma e il liceo scientifico – indirizzo che già avevo intrapreso quando ancora risiedevo nella mia città natale. Quindi ho fatto la scelta di passare completamente dal Rovato alla realtà con cui lavoravo già tutta la settimana, per continuità di percorso e di crescita con la squadra emiliana. Ho dunque partecipato a tutte le nazionali under 17 e under 18 dell’epoca, con i tornei internazionali annessi, ma in quinta superiore… beh, per la prima volta, mi sono ritrovato a scegliere tra rugby e scuola”.

Mi spiega come, in famiglia, è sempre passato chiaramente il concetto per cui la priorità era la scuola e, qualora non vi avesse avuto un’influenza negativa, dopo sarebbe venuto lo sport: “Idea che, tra l’altro condivido. Infatti, sono molto grato per questo approccio perché mi ha consentito di vivere entrambe le realtà – l’istruzione e l’attività sportiva – come una sfida. Io sono sempre stato libero di scegliere il percorso che mi si presentava davanti, però… quelle erano le premesse. Per me, ripeto, giuste. Difatti, ho sempre avuto un buon rendimento e ho conseguito con successo la mia attuale laurea, di cui sono davvero felice”.

Ma quindi? E questo bivio? Che è successo l’ultimo anno di liceo?

“Il passo successivo, rugbisticamente parlando, sarebbe stata l’Accademia di Tirrenia ma… scegliere quello avrebbe significato non continuare con gli studi. E io già sapevo che avrei voluto fare medicina all’università. E così ho rinunciato alla convocazione di quell’Accademia Nazionale per scegliere invece la mia facoltà dei sogni, continuando però a giocare come agonista nel Reggio Rugby (ndr. squadra, comunque, nella top 10 in Italia).”

Questa decisione, mi spiega, non è stata in alcun modo un ostacolo per la sua passione della palla ovale: ha comunque partecipato al Sei Nazioni U20 e al mondiale in Nuova Zelanda, il tutto mentre frequentava il primo anno di medicina a Parma – difatti, viveva ancora lì – e continuando, ovviamente, a giocare per il Reggio.

“A proposito di bilancio tra scuola e sport: il primo anno di medicina ammetto che è stato un po’ influenzato dal Sei Nazioni. Ovviamente il fatto che sia volato in Nuova Zelanda mi ha impedito di compiere quella sessione di esami e diciamo che all’università non è che interessasse più di tanto che io fossi un atleta. Tuttavia, e questo lo riconosco con affetto, c’è stato qualche professore che è stato comprensivo riguardo al mio stile di vita e mi ha sostenuto parecchio” –  e mi colpisce che ci tenga pure a dirmi i cognomi dei docenti in questione, pronunciati senza esitazione.

Dal secondo anno di medicina, dopo il mondiale, si è ritrovato a giocare insieme a suo fratello Giovanni: accade infatti che condividono due anni al Reggio Rugby.

Però quel piano di allenamento e quello stile di vita era davvero incompatibile con i miei studi. Insomma, stiamo pur sempre parlando di due allenamenti al giorno e di lunga durata…”

Filippo non me lo ricorda, ma capisco che in quel punto della sua vita si è trovato all’ennesima biforcazione di strada che implica inevitabilmente una scelta secca: o di lì o di là. Dopo il trasferimento a Parma a 16 anni, dopo la scelta di andare al Reggio e al mondiale… dove si approda?

Ebbene, ciò che nasce da questa ulteriore diramazione è una catena di eventi composta dall’entrata al Colorno (di cui sarà capitano durante l’ultima partita insieme) per poi spostarsi nel capoluogo lombardo per frequentare lì un noto polo universitario e continuare a giocare a rugby nel CUS Milano.

“Ecco, il Colorno mi è rimasto nel cuore anche perché non ha avuto prezzo essere il loro capitano proprio alla nostra ultima partita insieme. Ma anche quella del CUS è stata una esperienza eccezionale: si giocava a rugby per passione e c’era una disciplina incredibile, un attaccamento alla squadra, una collaborazione totale per il raggiungimento degli obiettivi comuni che mi hanno ricordato gli ambienti dei professionisti che avevo vissuto qualche anno prima – nonostante lì, all’epoca, fossimo in serie B”.

E anche qui si sofferma qualche secondo a raccontarmi delle persone speciali che gli sono rimaste molto care.

“Comunque, nel 2020 mi laureo in pieno COVID: l’emergenza sanitaria richiedeva che i neolaureati si mettessero con le mani in pasta fin da subito e così mi sono ritrovato anche io a fare tamponi su tamponi. Ciò, però, mi ha portato a un’ulteriore scelta: ormai, allenarmi alla sera tardi e presentarmi l’indomani a lavoro iniziava a diventare davvero impegnativo.” Di qui o di là?? “Insomma, sono arrivato alla conclusione che la mia vita sportiva non era più compatibile con la mia professione. Cessare di giocare e rugby dopo venti anni di carriera è stata una scelta necessaria e quasi obbligata per fare il giovane medico: uno dei miei più grandi obiettivi”.

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Probabilmente Pippo, a questo punto, considera di aver risposto abbastanza alla mia domanda iniziale, e forse è per questo che passa al sé presente: mi spiega che attualmente è medico specializzando in ginecologia e ostetricia e frequenta una scuola svizzera con sede a Lugano. Questo percorso dura cinque anni e sta agli studenti trovare ospedali che accordino un contratto, man mano, per fare pratica di ciò in cui ci si specializza: a maggio 2025 inizierà una nuova avventura in una struttura di Losanna, e quindi ha scelto di impiegare i mesi “vuoti”, tra un contratto e l’altro, imbarcandosi in una avventura senza precedenti. Attualmente – ed ecco dove si sta dirigendo, mentre parliamo – opera come medico assistente a Mayotte, una isoletta francese tra Madagascar e Mozambico che ha un record incredibile di nascite. È chiaro dal suo tono di voce quanto questo lavoro lo appassioni, e anche se non lo posso guardare negli occhi, vedo chiaramente una ipotetica luce accendersi nel suo sguardo.

“Pensa che mi sono sposato a settembre 2024 e dopo un mese sono partito per questo progetto. Paola, mia moglie, è stata il mio primo amore e ha sempre dimostrato incredibile sostegno e supporto per me, la mia vita sportiva e non, i miei spostamenti vari: siamo insieme da quando abbiamo 16 anni. Mi veniva a trovare a Parma in treno, quando eravamo ancora dei ragazzini. Fidanzata prima e moglie adesso, senza di lei la mia vita non sarebbe la stessa cosa. Però, anche se stiamo lontani di frequente, non sentiamo difficoltà nel nostro rapporto né incompatibilità della nostra vita famigliare con la mia lavorativa”.

Parlando di Paola, penso che Pippo mi abbia dato una efficace definizione di amore sicuro, giusto rispetto dei confini e fiducia. Tra l’altro, attraverso le parole che ci scambiamo al cellulare me lo inizio a immaginare come un Ulisse che punta il dito o di qui o di lì ai bivi che gli si presentano davanti, che si sposta di città in città, di regione in regione, di Stato in Stato per inseguire qualcosa in cui crede e che gli smuove dentro energie fondamentali per creare ciò che è (ed è stato): atleta Azzurro, studente di medicina, specializzando… e tanto altro. Probabilmente l’uroboro (nonché serpente che si morde la coda) che ritrovo sempre in chi ha vissuto una e – insieme – tante vite, qui mi si presenta più sottoforma di lucertola. Insomma, non fa la muta della pelle come il serpente: si taglia invece più volte la coda per vederne ricrescere subito un’altra, simile ma mai uguale.

Questa volta faccio io il passo del gambero e gli chiedo se gli manchi giocare a rugby o se si sia cimentato in qualche altro sport. “Beh, all’inizio non è stato facile smettere… così, all’improvviso, dopo tanti anni passati a rincorrere il vento chiuso in una palla ovale. Però, come ti dicevo, è stato necessario. Quello che mi è mancato più di tutto? La dinamica di squadra, appartenere a un team che condivide obiettivi, lavorare assieme. Continuo a fare palestra ma non è la stessa cosa: tuttavia mi aiuta a ristabilire l’equilibrio psicofisico che viene inevitabilmente intaccato durante i periodi di astinenza sportiva”.

Quello che mi sottolinea poco dopo non è una novità alle mie orecchie, né a quella dei miei colleghi psicologi sportivi. Giustamente, mi dice che avendo giocato dai 5 ai 25 anni lui sentiva di aver sviluppato e strutturato la propria personalità di “Filippo” attorno al dettaglio fondamentale dell’attività rugbistica. “Cambiando di categoria e, infine, una volta ritiratomi ufficialmente ho temuto di non essere più lo stesso Pippo… e invece è successo che ho utilizzato gli studi e la mia professione come altro contenitore nel quale riversare le mie energie, un nuovo fulcro a cui connettere le nuove e altre parti di me”.

Taglia la coda, prendi la seconda a sinistra, aspetta ricresca la nuova appendice di te.

“E poi l’esperienza di uno sport di squadra così intenso come il rugby è stata fondamentale, mi sento di dire, per il mio metodo di lavoro in équipe. Si tratta comunque di dover rispettare regole, ordine, andare tutti nella stessa direzione e contribuire a un clima positivo. Insomma, mi ha lasciato un’ottima eredità per la mia quotidianità. Ultimo ma non ultimo: prendere mazzate (metaforiche e non) in campo mi ha insegnato cosa è importante tenere a cuore e cosa lasciar andare, farsi scivolare di dosso. Ho incrociato alcuni esempi negativi, diciamo, ma mi hanno permesso di capire come non volevo essere e cosa avrei dovuto fare per non essere come loro”.

Forse è banale, ma gli chiedo se abbia mai pensato di rimanere all’interno dello sport che ha tanto amato, magari diventando allenatore. Senza la minima esitazione mi risponde che ha sempre e solo visto e vissuto il rugby come giocatore, punto. E questa idea capisco che è probabilmente stata partorita al primo bivio della sua storia (ndr. o gli studi o l’Accademia di Tirrenia) e maturata chiaramente durante il proseguo di essa. Mi fa presente che avrebbe potuto puntare all’alto livello quando si trovava nella Nazionale U20, ma ha semplicemente scelto altro. “Sì, a volte ci penso e mi chiedo come sarebbe potuta andare. Però so che, in quel caso, attorno alla mia età attuale sarei stato quasi a fine carriera (se tutto fosse andato per il verso giusto), mentre ora sto quasi finendo la mia formazione di medico: e ciò significa che sono solo agli inizi della lunga strada! Ragionare per rimpianti qui non ha senso, è come se pensassi a una lotteria per la quale non ho comprato alcun biglietto”.

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Adesso starà anche tornando a Mayotte a lavorare ma, a cosa sta puntando, nel medio termine? Voglio indagare. La risposta è lecita: Pippo è davvero determinato a concludere gli studi e ad avviare la propria carriera, ma c’è dell’altro. Mi confida che sposarsi a settembre per poi trasferirsi per lavoro un mese dopo, a migliaia di chilometri di distanza, non è stato un mordi e fuggi, ma un gettare le fondamenta per costruire una famiglia tutta sua con Paola. “Vorrei crearmi una famiglia proprio come l’ho avuta io. Anche se i miei genitori all’epoca erano entrambi professionisti molto impegnati, ci seguivano ovunque… anche su più campi contemporaneamente: ricordiamoci che eravamo tutti e tre/quattro fratelli ad avere impegni sportivi nel fine settimana. Insomma, ora che tocca a me vorrei restituire ciò che mi è stato dato, costruendo qualcosa di tutto mio. Anzi, nostro, di me e Paola”.

Questo senso della famiglia è inciso a caratteri cubitali nei suoi pensieri e nel modo in cui li traduce in frasi, sempre brevi e incisive. Mi infilo nelle crepe di questo argomento e scendo ancora più sul personale, domandandogli quale sia una delle sue core memory, un ricordo che lo tranquillizza all’istante e che sa di “casa”. Quando mi aspetto finalmente di averlo colto di sorpresa, lui ribatte ancora una volta con prontezza e sicurezza, confermando la figura dell’Ulisse moderno di cui sopra: “Rispondo citando tutte le mie case, passate e presenti: mia moglie, Lugano, Rovato… e così via. Tutti contesti in cui sono cresciuto. In famiglia mi hanno anche trasmesso che, se casa te la porti dentro, allora è ovunque… con te. Questo accade davvero perché, per esempio, nonostante le occasioni di vederci di persona non siano numerosissime, con i miei fratelli ho un rapporto incredibile. E anche loro lo sono. Partendo dal maggiore al minore: Gianmario, che ha studiato in Spagna all’università, ha ottenuto anche i suoi successi con l’equitazione e oggi è un odontoiatra; Giovanni, che è stato anche in squadra con me, oggi è avvocato e lavora in uno degli studi più importanti a Milano; (ndr. Poi ci sarebbe Pippo stesso) e infine Edoardo, detto Dodo, che a 15 anni ha vinto una borsa di studio ed è andato a diplomarsi in Inghilterra, è in seguito entrato anche lui in una Accademia FIR e ora fa il medico. Comunque, ci teniamo tutti in contatto e ci sentiamo per il gusto di essere uniti tra noi. Difatti, tutti e tre sono stati i miei testimoni di nozze!”.

Mi sembra sempre utile e interessante chiedere a chi ho di fronte qual è un buon consiglio che qualcuno gli ha dato nella vita e, di nuovo come se avesse già il colpo in canna, il nostro medico risponde così: “Tante persone del contesto sportivo o meno mi hanno offerto molti insegnamenti validi, ma io ti cito sicuramente quello che nonno Gianni – perso purtroppo quando avevo 18 anni – ha sempre detto a me e ai miei fratelli. Lui ha espresso senza riserve l’approvazione e il contento per i nostri successi ma ci ricordava continuamente di mettere a frutto i nostri talenti… ovvero, di lavorare per qualcosa che ci è stato dato, che non ci siamo meritati ma che ci è come caduto dal cielo, diciamo, ed era dunque nostro dovere valorizzare e coltivare con cura. Tra l’altro, per aggiungere un aneddoto simpatico, è stato proprio nonno Gianni ad aver intuito per primo che sarebbe nato qualcosa di serio tra me e la mia futura moglie!”

Probabilmente è da questo monito che Pippo ha ereditato alte pretese da se stesso, non irrealistiche, ma comunque impegnative. Difatti, continua: “Un po’ mi arrabbio quando temo di non essermi impegnato al cento percento… e penso spesso a cosa potrei o vorrei dire al me più giovane. O meglio, più che altro mi piacerebbe che il Filippo di ieri e quello di oggi interagissero affinché il me passato desse dei consigli al me odierno. Credo che mi direbbe di stare tranquillo, che se ci si mette il cuore e si dà il massimo, allora nessuna scelta è sbagliata… perché in questo modo non possono esistere i rimpianti. Probabilmente mi ricorderebbe che la vita è come il rugby: una scelta non ottimale ma decisa è migliore di una perfetta ma incerta. Insomma, penso mi spronerebbe a tenere duro, ad adattarmi e crederci sempre, ma rimanendo umile. Infatti, una cosa che vorrei imparare a fare è prendermi meno sul serio… non intendo essere superficiale, ma concedermi un po’ più di leggerezza. Ecco perché ti dico che sarebbe il Pippo giovane a ispirare quello più maturo”.

Dopo avermi parlato di sé, aprendosi completamente e mostrandomi la sua personalissima cartografia delle passioni che custodisce con tanta premura, mi sembra naturale chiudere il nostro scambio di opinioni con queste frasi. Un po’ ripensando alle parole di iniziali di Pietro, ragiono sul fatto che non tutti gli eroi indossano mantelli, ma forse la maggior parte di loro ha una coda.

Vuoi conoscere anche la storia di Silvia? Leggila qui https://tinyurl.com/5c6uxzej

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Filippo, al centro, che veste la maglia Azzurra nel modiale in Nuova Zelanda (2014)

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Fratelli in campo, ma con squadre diverse: Rugby Reggio (Filippo, a destra) VS Viadana (Giovanni, a sinistra).

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Paola e Filippo, il giorno del loro matrimonio (2024)

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Filippo e i suoi testimoni di nozze: tutti i fratelli!

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Filippo con uno dei primi nati appena dopo l’uragano Chido che ha colpito l’isola di Mayotte.

 

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