COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE
L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.
Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.
SERGIO CARNOVALI
Quando incontro Sergio, non conosco nulla della sua storia: mi sembra quindi un ottimo spunto di conversazione chiedergli di raccontarmi di sé, da qualunque parte della propria vita voglia iniziare. Sono curiosa di sentire ciò che vorrà trasmettermi, scoprire quanto desidera aprirsi e in che modo la sua figura sia intrecciata al mondo sportivo, che anche di primo impatto è chiaramente presente nella sua quotidianità – difatti, indossa una maglia con il logo di una squadra di rugby.
“Beh, il mio nome già lo sai: Sergio Carnovali. Sono nato nel 1953 e quindi ti racconterò qualcosa che forse è un po’ diverso da ciò che conosci tu del mondo odierno. Per parlare di me… inizierei da una parte della mia vita che ricordo con tanta emozione: la mia giovinezza. Fino ai sedici/diciassette anni ho frequentato assiduamente l’oratorio… lì ho incontrato tanti sport diversi, e ho praticato il basket, il calcio… e quel luogo aveva una funzione “altra”, che andava al di là di classico oratorio. Insomma, noi lì ci divertivamo, scoprivamo, ricevevamo una educazione. E devo dire che, anche se con il passare del tempo l’oratorio passava, gli insegnamenti che avevo interiorizzato lì… non passavano! Ho sempre cercato di essere disponibile per il prossimo.”
Sergio mi racconta con emozione di un personaggio incrociato in quel caro luogo, qualcuno che riusciva a passare dal ruolo di allenatore di calcio a tuttofare: Piero.
“Ecco, lui era incredibile. Un signore di una umiltà estrema, che forse nemmeno aveva finito le scuole elementari, ma era portatore di una saggezza immensa. Una sua frase che tutt’oggi mi rimane e il cui senso ho afferrato appieno vivendo il campo da gioco (e scegliendo così di anche insegnarla a mia volta, da allenatore) è: Fai lanci lunghi e poi… devi pedalarci dietro a quella palla!. Insomma: sostieni il pallone!”.Il protagonista di questo mese e il rugby si stringono la mano attorno gli anni delle scuole superiori. Mi racconta come si sia approcciato alla palla ovale perché i suoi compagni di ragioneria ci giocavano, e così si è lasciato coinvolgere con entusiasmo. “Ecco, anche qui ho ritrovato ciò che ti dicevo prima, riguardo gli insegnamenti dell’oratorio. Anche in campo con i miei compagni, nonostante il rugby sia un gioco duro (soprattutto quando l’ho praticato io, ai tempi), mi mettevo totalmente a disposizione del prossimo. È fondamentale l’appoggio nel gioco di squadra, sostenere l’avanzamento insieme. Alla fine, per quanto mi riguarda, questo è proprio ciò che i preti ci hanno voluto trasmettere.”
E poi sono arrivati gli allenamenti serrati, le partite… giocate sui primissimi campi: uno tra questi, quello di Rho. “Guarda, mi ricordo ancora la prima partita. A Milano, al vecchio Giuriati… 9:30 di una gelida mattina… fango ovunque… una memoria indelebile.”
Sergio ha sempre giocato in questa squadra, per poi procedere come allenatore di essa per una decina di anni. Infine, mi confessa che attorno l’inizio degli anni Novanta ha portato avanti la tradizione rhodense nel Rugby Milano. Si è dedicato anche a ricoprire figure che riguardavano la direzione tecnica, spendendosi al massimo fino a quando, verso fine carriera, ha ceduto il suo posto continuando comunque a collaborare: “… affinché potessi passare anche agli altri ciò che questo sport ha dato a me”.
Inoltre, si sofferma a descrivere lo stile di alcuni allenatori da cui ha attinto per proporsi in campo ai suoi atleti. Dalle sue parole traspare lo spirito combattivo di queste figure, e mi cita un’altra massima che gli è stata familiare per parecchio tempo in campo. “Un allenatore ci diceva sempre che le partite iniziano a 0 – 0 e se non si prendono punti, allora non si può perdere. Quel che voleva passarci è che anche la difesa è fondamentale, oltre all’attacco!”.In effetti questa figura mi sta regalando delle immagini che sento un po’ distanti dalla mia realtà, però hanno l’alone di quei racconti che ho comunque potuto sentire in famiglia. Difatti, Sergio mi sorprende fin da subito con un aneddoto che mi ha permesso di scoprire qualcosa di nuovo. “Quando è arrivato il momento di andare a militare ho avuto l’incredibile possibilità di completare i miei mesi di leva obbligatoria nella Compagnia Atleti di Napoli. Lì si era parte dell’esercito, però era possibile continuare a praticare il proprio sport. Ho potuto dunque allenarmi a rugby, vivendo quella come un’esperienza formativa e di crescita personale. Insomma, quei mesi ho vissuto anche accanto ad altri atleti di sport anche molto diversi (tennis, basket, ciclismo, etc) ed era come se fossimo professionisti del settore… facevamo solo quello tutto il giorno, ma era ovviamente comunque un bel lavoro intenso da svolgere. Ovviamente, c’erano anche ragazzi che facevano parte delle Nazionali. Insomma, si viveva di sport e della condivisione di queste discipline così diverse tra loro. E poi… ognuno rientrava a casa, finita la leva, e tornava nella propria società.”
Mossa da curiosità, gli chiedo che lavoro ha svolto prima di andare in pensione, e lui la prende un po’ alla larga perché è necessario darmi un preciso contesto per sciogliere ciò che sta per dirmi. La risposta breve è che ha lavorato in banca per la maggior parte della sua vita, ma quella lunga è che ha iniziato giovanissimo, facendo il macellaio, dopo che aveva perso un anno delle scuole superiori.
“Ho avuto la sfortuna… che poi è diventata la mia fortuna… di essere bocciato al primo anno di ragioneria. I miei genitori avevano acconsentito al fatto che studiassi, e quindi dopo questo evento hanno messo le cose ben in chiaro. Mio padre mi ha chiaramente comunicato che avrei continuato a studiare perché, appunto, era ciò che io avevo scelto, però da quel momento in poi avrei passato il giorno a scuola ma le mattine presto e i pomeriggi in macelleria. E ci ha anche tenuto a sottolineare che io ero molto fortunato: mio fratello, difatti, aveva iniziato a lavorare a 14 anni, mentre io avevo il lusso di poter ottenere una formazione fino ai 18 anni. Tra l’altro, mi ha specificato come non avrei ricevuto alcun compenso né mance di Natale, nel mentre.”
Insomma: altri tempi. Però, lo dice lui stesso, questa vicenda che l’ha segnato nel profondo è stata colta come una delle tante sfide quotidiane e giuste lezioni che era necessario superare e vivere. Anzi, Sergio conclude ragionando: “E che ci si aspetta da questa situazione, da questa fatica che avrei dovuto affrontare? Nulla, solamente di crescere… che, in realtà, è l’unica cosa che conta.”Mi sorprende scoprire che, tra macelleria, banca e campo da rugby, spunta anche un altro ambito. Parliamo di come si sia occupato di attività di team building per diverse aziende, anche famose multinazionali, in epoche non sospette: attorno la fine degli anni Novanta e l’avvio dei Duemila, Sergio ha tenuto tanti corsi su questo tema, nonostante fosse effettivamente un tipo di approccio non diffusissimo ai tempi.
“Il team building, come l’allenamento, è composto da questioni tecniche ma anche… umane. Chi è abituato a giocare con gli altri e a mettersi a disposizione riconosce con più semplicità che dall’errore si può rimediare e fare altro… anche qualcosa di migliore. Ricollegandoci allo sport: anche per essere allenatori, è necessario essere buoni educatori. Insomma, diventarlo significa avere umanità e una filosofia… quando queste due componenti incontrano la scienza, allora sì che succede la magia. Altrimenti manca quel quid. Le grandi scoperte accadono facendo esperimenti, studiando, collegando e unendo. La postura corretta in campo non è efficace senza lo slancio dell’improvvisazione creativa.
Per concludere, l’allenatore credo sia necessario diventi una sorta di demiurgo, un artigiano che plasma chi si ritrova di fronte. Quando sento pronunciare frasi come Ma con questa squadra dove vuoi che vada? O freddi calcoli quali Mi serve un pilone, una apertura… Mi infastidisco perché quel che penso è che la squadra è necessario formarla e farla crescere. Di nuovo, il materiale a disposizione, che – non dimentichiamocelo – sono anche delle persone oltretutto, è necessario forgiarlo! Dunque, io vedo il tecnico come artigiano. Ma oggigiorno è sempre più raro che accada ciò… e io lo capisco, perché i tempi sono sempre ristretti, e spesso si è obbligati a passare da un campo all’altro, da un luogo di lavoro all’altro in fretta e furia. È necessario dire che il tempo delle persone bisogna pagarlo in modo adeguato, oppure ci si ritrova a fare quel che si può come si riesce. Indubbiamente, io riconosco di essere stato fortunato ad avere il mio bel lavoro in banca: mi permetteva di stare sereno e dedicami all’attività di allenatore senza le preoccupazioni che ho citato sopra.”Forse ingenuamente, mi chiedo come un’anima così creativa abbia potuto lavorare per la maggior parte della propria vita in banca, e Sergio mi risponde senza che io abbia il tempo di chiederglielo… quasi mi leggesse nella mente. Confessa di aver scelto questo impiego più per lo stipendio che altro. Per un paio di anni, in effetti, era stato rappresentante di prodotti chimici per la ricerca. “Io non capivo nulla di chimica a scuola ma con quel lavoro ho imparato tantissimo. Portavo la merce ai laboratori e alle università e loro mi spiegavano cosa stavano facendo e cosa progettavano di creare. Io ero semplicemente strabiliato. Qualcuno studiava antibiotici, mentre altri erano alle prese con dei pannelli solari primordiali. Però, ecco, poi mi è arrivata la proposta della banca che offriva un compenso migliore e, anche se un po’ a malincuore, ho abbandonato quella vita anche un po’ itinerante. Mi sono fatto la mia gavetta e ho continuato a giocare a rugby… arrivare a lavoro al lunedì, allo sportello, con un bell’occhio nero suscitava parecchio interesse e qualche risata. E infine mi sono dedicato alla parte di formazione e marketing (ciò che ti dicevo prima riguardo al team building) che ho poi cercato di introdurre anche nel mio rugby. Insomma, ho provato a tradurre qualcosa che proveniva dal mondo crudo della finanza e inserirlo in quello meraviglioso della palla ovale.”
A un certo momento se ne esce con questa frase che mi segno il più velocemente possibile su carta: “La palla da rugby è un po’ come la mamma, la puoi affidare solo a chi conosci e di chi ti fidi. Ciò implica conoscere i compagni, sapere dove si è in campo e andare oltre all’apparenza e approfondire. Ecco perché ricordo sempre a ogni allenatore che tutti i componenti di una squadra sono importanti. Anche il meno esperto è utile perché può creare un collegamento che porta la palla proprio dove è necessario e a sostegno di chi è più pratico di lui. E se questo giocatore, sebbene non il più brillante, è qualcuno che è sempre presente e si impegna, allora sicuramente può contribuire al gruppo.”Il suo è stato un lungo discorso libero che non è stato necessario né direzionare né contenere con mie domande, e ogni argomento snocciola tante piccole parti della propria vita che racconta con piacere e semplicità. Ci tiene a sottolineare più volte quanto ami la sua disciplina sportiva e vivere il campo. Racconta la gioia che gli dà guardare il mini rugby che, tra i piccolissimi, da disorganizzato inizia a prendere forma man mano che ci si avvicina alle giovanili. “Mi emoziono ad assistere agli allenamenti dei bambini, mi danno vita in più”, sorride.
Ancora una volta insiste su quanto si possa imparare da ogni esperienza, se noi lo vogliamo. Ribadisce che essere allenatore è un fantastico viaggio che ha anche una grande responsabilità: “Il tecnico prende decisioni e fa spiegazioni, però oltre agli schemi di gioco è fondamentale leggere chi si ha di fronte. I nostri cinque sensi è necessario si sviluppino al quadrato, allenandoli. Insomma, sto parlando di avere la sensibilità di vedere con gli occhi per poi imparare a capire l’avversario anche dall’odore e dall’atteggiamento che va oltre alla apparenza. Sentire senza ascoltare significa perdere un’occasione preziosissima.”“Sono innamorato della vita, amo ciò che faccio, sento che gli anni passano ma io sono sempre entusiasta di ciò che vivo. Una cosa bella della vecchiaia è che si dorme poco: così ho più tempo per fare e vivere!” scherza, ma capisco che è anche serio mentre mi dice ciò.
Approfitto di questo momento emotivo per chiedergli della sua famiglia, dal momento che l’inizio della videochiamata è stata possibile anche grazie alla coordinazione di sua moglie, una donna con un grande sorriso dolce: lei è Sonia, e sono sposati da ben quaranta anni. Sergio prosegue parlandomi di sua figlia Marta “Che, in realtà, si chiama Marta Ellis, in onore di chi ha inventato il rugby (ndr. William Webb Ellis). Al momento è in Nuova Zelanda, sta facendo una parentesi di viaggio che sta amando. Anche lei ha fatto rugby, oltre a tanti altri sport, ed è pure stata allenatrice.”
Il nostro incontro volge al termine dopo aver continuato a discutere su altri temi e opinioni che riguardano lo sport giovanile, la Federazione cui entrambi siamo legati e i ringraziamenti che lui mi porge e io ricambio di cuore. Mi trovo molto d’accordo su un concetto che ha rimarcato più e più volte durante la nostra ora e mezza insieme: non si smette mai di imparare, e soprattutto ciò è possibile se si è disposti a farlo accadere. Sergio si è presentato parlando dell’oratorio, è passato per una parentesi militare-sportiva, ha continuato con la ragioneria e il lusso degli studi (sebbene intrecciati al contrasto di un lavoro duro e non retribuito) per proseguire da rappresentate che si cambia d’abito in impiegato di banca e indossa la maglia di giocatore che… si trasforma in allenatore e poi dirigente. Abbiamo affrontato tante metamorfosi che, molto probabile, hanno sorpreso in corso d’opera anche il diretto interessato. Il messaggio con cui conclude la nostra chiacchierata è come vedere un raggio di sole dopo un temporale: “Sono innamorato della vita”, non solo per il contenuto ma anche per l’emozione dietro lo sguardo con cui lo dice.
Vuoi conoscere anche la storia di Filippo? Leggila qui https://tinyurl.com/3ehjah4b