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COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE

L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.

Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.

Copia di POST 2024 1

MORENA TARTAGNI

C’è qualcosa di sorprendentemente meraviglioso nello scoprire, a posteriori, il significato delle esperienze vissute: è come se, lasciandole decantare un poco, riprendessimo tra le mani ciò che ci è accaduto per poterlo rinominare e comprendere più a fondo. E così, capita, si notano piccoli punti di luce che fungono da riferimento nell’oceano della nostra vita: delle boe di salvataggio attorno cui far passare l’intricata corda che lega la pesante rete dei nostri vissuti. Non sappiamo se sia nato prima l’uovo o la gallina, ma quel che è certo è il nostro atavico bisogno di ricercare un senso in ciò che ci accade. Ecco perché è tanto fondamentale tenere viva la fantasia.

L’incontro con Morena è avvenuto per caso: metà seguendo l’istinto e metà assecondando il mio amore per la lettura. La protagonista di questa storia è una persona che già qualche anno fa ha scelto di raccontarsi senza riserve: appena ho accostato il suo nome alla copertina di un libro, è stato ovvio come avrei occupato il mio tempo libero. La sua cronaca, pubblicata nel 2022, è delicatamente stesa in poco meno di duecento pagine che ho divorato con grandissimo piacere. Apprezzo particolarmente le storie di vita vissuta, ne ho lette moltissime e di diversissime, però ammetto che non mi era mai accaduto di emozionarmi sul divano di casa… praticamente per tre quarti delle pagine. Prepararmi studiando la biografia di Morena è stato imperativo – solo così avrei potuto capire meglio chi avrei incontrato di persona – e mi sento di dire che è proprio leggendo che ho intrapreso un incredibile viaggio dentro lei e, di conseguenza, anche dentro me. Le boe di cui parlavo prima, il fil rouge che sembra collegare tante nostre esperienze, non sono altro che un effetto collaterale del lasciarsi andare, sperimentare, aprire i propri orizzonti per poi tornare a rivolgere l’attenzione verso l’interno, riuscire a capirsi meglio, guardarsi dentro e creare occasioni di riflessione. L’espressione “filo rosso” (fil rouge) è difatti inteso con il significato di “filo conduttore” e sembra avere origine marinaresca: per districare le gomene di una nave si seguiva un filo rosso che rendeva possibile separare le corde aggrovigliate. Insomma, per me, non è mai stato così bello sciogliere dei nodi.

“… ma dammi pure del Tu! Sai, tra sportivi, ci intendiamo”.

Questo è stato l’approccio che ho avuto al telefono con Morena, che sapevo essere una signora molto più grande di me di età, e mi ha sorpresa non poco. Ho balbettato qualche “Lei” per tutta la chiamata, perché quasi mi sembrava profano propormi da pari in quel contesto e con tale interlocutrice. Ma sarebbe stata una mancanza di rispetto ignorare la sua proposta, quindi, sforzandomi, mi sono fatta coraggio – forte del fatto che tra noi ci fosse il filtro del telefono – e ho pensato che la reale difficoltà sarebbe stato farlo di persona… ma quello era un problema della me futura: ci avrei pensato quando mi sarei trovata in quella situazione.

Avevo terminato da qualche giorno il libro su Morena Tartagni, pioniera che in sella alla sua bici ha aperto la strada al ciclismo femminile italiano. Nata del 1949, dopo una infanzia difficile ma circondata dall’amore della propria famiglia, aveva trovato il sostegno di una mamma e un papà particolarmente “avanti” rispetto ai tempi che correvano. Infatti, quando ancora era considerato scabroso e ridicolo per una donna salire su una bici indossando i calzoncini corti e pretendere di fare anche l’atleta, Morena ha avuto la possibilità di vedere il suo sogno assecondato dal tifo di due genitori che hanno sempre creduto in lei. Una delle prime cose che mi ha detto appena sedute al tavolino del bar, è stata: “Non freno mai, spingo, spingo sempre. Spingere è importantissimo nella vita, andare avanti, avere l’entusiasmo dello slancio”. Ancora oggi il suo lessico tradisce la propria storia di grande atleta.Copia di POST 2024 1Di fronte a me c’è una signora di settantacinque anni con i capelli lilla e gli occhi vispi. Non me l’ero immaginata così, eppure non sono sorpresa… anzi è come se la conoscessi già. Dopotutto, ho annientato in un paio di giorni il suo libro, ho attinto da quelle pagine per crearmi l’immagine di una persona che è esattamente quella che mi ritrovo davanti. D’un tratto la tensione che sentivo prima di stringerci la mano svanisce, non sento più la preoccupazione che mi occupava la mente stando seduta lì, da sola, ad aspettarla. Mi accorgo di quanto ciò che sta accadendo sia una esperienza incredibile e, di nuovo, quanto io mi senta al posto giusto nel momento giusto. E intanto, quel filo rosso sta iniziando a intrecciarsi.

 Le ho spiegato che lo scopo della nostra chiacchierata non è solamente fare luce sulla sua brillante carriera di atleta, ma gettare uno sguardo su “lei persona”, ascoltando ciò che ha da dire e soffermandoci su chi sente di essere, dove sta andando, come è stato il suo viaggio fino a ora. E di esperienze ne ha da raccontare: oltre alle numerose imprese compiute in sella alla sua bici e alla longeva attività agonistica, Morena ha un bagaglio di vita decisamente ampio.

Io ho sempre dovuto lavorare tanto, rincorrere per l’intervista post gara, farmi in quattro per le mie decisioni, sostenere importanti scelte e lotte per la mia visibilità di atleta donna ciclista, però non sono stata l’unica: prima di me c’è stata Alfonsina Strada, poi tutte le mie ex colleghe, e alla fine… la donna è sempre andata in bicicletta. Pensa alle partigiane: non erano forse loro che facevano la staffetta assolvendo un lavoro importantissimo correndo anche sulle due ruote? Semplicemente, è cambiato pian piano lo stile del medesimo mezzo di trasporto. Abbiamo tolto il cestino, i fiorellini, e l’abbiamo riadattato a un bolide da corsa”.

Già per tutta la durata della lettura ho notato come lei abbia attraversato dei periodi storici densissimi e tanto diversi tra loro: tecnicamente potrebbe avere l’età per essere mia nonna, dalle sue parole traspaiono spaccati di vita quotidiana che ho potuto tranquillamente acquisire da mia madre e mio padre, oltre che dai loro genitori. Ha un che di incredibile scambiarsi opinioni con una persona che è nata poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che ha dovuto sentirsi dire “Torna a casa a fare la calza!” durante le sue gare, ma che ad oggi abita lo stesso mondo che conosco io, nata a fine anni Novanta, e che con fierezza mi dice di sentirsi una donna libera e non esserlo mai stata come ora, a settantacinque anni.

Sì, perché Morena mi dice espressamente che è proprio ora, alla sua età, che vive il suo più grande riscatto e, dopo tutto quello che è accaduto nella sua vita, ci pensa su un po’ e si chiede: “Ma quanto sono stata coraggiosa?”.Copia di POST 2024 1Sfogliando il suo racconto “Volevo fare la corridora”, salta all’occhio come questo inizi e finisca incorniciato dal delicato ricordo di Paola: una figura di cui non si sa nulla nella lettera che Morena le dedica appena dopo l’indice, ma che al termine del libro guadagna un piccolo grande spazio nel cuore dei lettori. È chiaro fin da subito, però, che si tratta di un personaggio centrale nella vita della ciclista: ecco perché, davanti a un caffè, mi permetto di approfondire una frase che ho sottolineato direttamente dal testo. Le chiedo dunque di spiegarmi meglio questo suo passaggio:

“Ma il più grande ringraziamento te lo devo per aver ereditato da te la forza e il coraggio di mettermi a nudo, raccontando con trasparenza la mia storia di atleta e la nostra storia di donne, libere da ogni pregiudizio.”* (pagina 9)

 La risposta è ampia, parte da lontano perché è necessario un margine di manovra per raccogliere il filo rosso di Morena, una connessione lunga venticinque anni. Mi racconta di come sia stata proprio Paola ad averle mostrato quanto avesse fatto per il panorama sportivo femminile: prima, lei stessa non si era accorta davvero di ciò che le sue imprese avevano effettivamente comportato. E le pagine macchiate di inchiostro che tengo nella mia mano sinistra in quel momento, mi dice, esistono grazie a una promessa che Paola le ha strappato appena prima di andarsene. Infatti, dopo averla fatta sedere sul letto accanto a sé, le ha proposto una idea:

“Morena, i giovani d’oggi devono scoprire che il ciclismo femminile non è partito dagli anni Ottanta in poi, ma che c’è stato chi l’ha aiutato ad arrivarci lì: tu!”

Va da sé che raccontare la propria storia avrebbe inevitabilmente significato raccontare la loro storia, quella di Paola e Morena, quella di due “donne, libere dal pregiudizio*”.

Perché – mi spiega con passione e con gli occhi lucidi – è appunto grazie alla sua compagna che ha scoperto i veri valori della sua vita, le piccole cose che non vedeva o non voleva vedere. Paola le ha regalato venticinque anni stupendi, ricchi di esperienze, consapevolezza. Da un matrimonio precedente aveva avuto due figlie, che fanno tutt’ora parte della vita di Morena, e attraverso le quali la nostra ciclista ha potuto scoprire anche l’esperienza della maternità: “Ovviamente non intendo che sono davvero figlie mie, però stare a stretto contatto con loro e vivere il loro amore mi ha permesso questo incredibile viaggio dentro me stessa, condiviso con la persona che più ho amato. Anche oggi le nostre famiglie sono molto legate”.

Ho tante domande, ma non è necessario farne perché le risposte mi vengono presentate una dopo l’altra, con un tempismo perfetto.

“Beh, forse l’unione civile tra noi non era necessaria… eppure è stata fondamentale. Insomma, io avevo settant’anni e lei quasi ottantuno. Non si trattava di ufficializzare o rendere “più vero” un legame, piuttosto era un altro modo per esprimere la nostra necessità di emancipazione, un gesto volto a lasciarci alle spalle, ancora una volta, delle costrizioni con le quali non eravamo più disposte a scendere a patti… da anni. Però è stata una scelta perfetta.”

Nel vocabolario di Morena trovo un lessico fatto di gentilezza, di parole contemporaneamente accoglienti e forti, decise: “Non voglio essere etichettata per la mia scelta di essere stata con Paola: non mi interessa riassumermi in “gay” o “lesbica”, quel che mi importa è aver vissuto i sentimenti senza sentire la pressione di appiccicarci sopra un nome. Non rinnego il mio passato, le mie esperienze precedenti, quelle sono parte di me… semplicemente auguro a tutti di provare i sentimenti e le emozioni come li ho sentiti io”.

Le chiedo quindi di spiegarmi come è stato condividere questi anni con la sua compagna, dopo aver finalmente scelto di allentare la presa e alleggerire la mano dal freno. L’immagine che mi regala è tanto naïf quanto emozionante: mi risponde che quell’amore maturo è stato come vivere un sentimento su una nuvola, accompagnandosi mano nella mano, qualcosa di totalmente diverso da ciò che si era sperimentato fino a quel momento.Copia di POST 2024 1Mi incuriosisce molto l’energia con cui ripete la parola “libertà” e leggo nei suoi gesti, nelle espressioni del viso, quanto ciò che mi racconta sia frutto di un sogno diventato realtà, un traguardo tagliato dopo tanta fatica e sofferenza, un punto d’arrivo che si è subito trasformato in partenza, in una rinascita. È inevitabile immaginarmi Morena come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo, soprattutto quando parla del suo concetto di “infinito”:

“Dicendoti che non me la sento più di darmi un freno intendo che io guardo sempre oltre. Davanti a me non c’è altro che l’infinito, non vedo né cerco un limite… ma, allo stesso tempo, questo mi ha permesso di conoscerli, i miei limiti.”

Ecco come mi racconta di aver fatto pace con i suoi “confini”, il perimetro della sua persona, che non sente più eccessivamente stretto ma bensì un accogliente abito fatto su misura che le cade a pennello. Ancora una volta, ad aiutarla in questo percorso di crescita personale è stata la sua storia di amore: capire che i propri difetti diventano i pregi per chi ci ama (e provare lo stesso nei confronti delle “pecche” della compagna) è stato un potente acceleratore che ha contribuito all’attuale accettazione di sé.

Trovo impressionante la profondità con cui Morena si sa raccontare, e probabilmente è grazie alla sua spontaneità che la nostra chiacchierata procede con entusiasmo crescente. Non mi è più difficile darle del Tu e mi apro con lei come non ho mai fatto con una sconosciuta, racconto dettagli intimi che sono emersi nella mia mente sentendola parlare – quelle famose boe di salvataggio. Mi aggancio in modo naturale alle sue idee, sento di condividere tantissimo e, forse per la prima volta da quando faccio il mio lavoro, mi tolgo il cappello da psicologa e lascio trasparire più di quanto avrei mai pensato di voler fare. Mi emoziono molto durante il nostro incontro e vedo che la cosa è reciproca.

 Giunta a questo punto della mia vita sento una forte consapevolezza di me, di chi sono, e so che non necessito di nascondere nulla. Insomma, insisto: percepisco il bisogno di sentirmi libera, trasparente. Ma bada bene, ovviamente capisco subito con chi posso sentirmi tale e con chi no: e in quest’ultimo caso sto al suo gioco e… prendo in giro chi ho davanti! Accetto di rispondere a un muro scegliendo di non regalargli la vera me stessa. Non se lo meriterebbe”.Copia di POST 2024 1Spinta dall’ingenuità (dopotutto non ho nemmeno trent’anni), e affascinata da quanta vita possa essere racchiusa in settantacinque primavere, le chiedo di getto cosa domanderebbe a una sfera di cristallo costruita per dirle unicamente la verità. Si prende qualche istante per pensarci ma la risposta mi arriva, sebbene un po’ sibillina.

“Beh, vorrei fare una domanda a lei (Paola), su una questione per cui non ho mai avuto una risposta e che io non sono mai riuscita a capire. Lì ho scelto di rispettare la sua privacy ma… oggi glielo chiederei senza pensarci un attimo e mi piacerebbe avere una risposta!” gli occhi le si inumidiscono di nuovo, e i miei seguono istantaneamente il suo esempio “Però c’è qualcosa che anche io non le ho mai detto. Qualcosa che ho tenuto ripiegato nell’angolo più remoto della mia persona, che non sono stata capace di spiegare nemmeno di fronte a lei… ecco, questo non lo rifarei, forse ho sbagliato. Perché so che lei avrebbe capito, ne sono certa. Però, questo ragionamento mi permette di capire il motivo per cui lei non mi abbia dato quella famosa risposta di cui ti ho parlato poco fa”.

Morena continua a intrecciare i nostri fili rossi, sembra essere sempre un passo davanti a me, come se sentisse in anticipo i miei punti interrogativi. Difatti, non faccio nemmeno in tempo a chiederle se crede ancora nell’amore che lei indovina la risposta:

Per me i sentimenti di amore sono terminati con Paola. So che non potrò più dare disponibilità del mio affetto romantico. Però amo la vita, amo e non riesco a smettere di amare: nutro un forte rispetto per i miei sentimenti, non dubito del mio modo di provare gioia per la mia quotidianità e le persone che mi circondano di affetto. Non mi vergogno di dire che in passato ho vissuto momenti davvero (ndr. ma davvero) bui, durante i quali non vedevo né sentivo nulla… ma poi ho conosciuto Paola e ho riniziato a vivere. Credimi che ho proprio pensato “Ah, ma allora esistono ancora i sentimenti!”. Penso sia imprescindibile condurre la vita con amore e passione, solo così superare gli ostacoli diventa addirittura entusiasmante”.Copia di POST 2024 1L’entusiasmo con cui condivide il suo punto di vista è speciale, e sento di voler assorbire il più possibile da questo incontro: approfitto di un raro attimo di silenzio per fare una delle poche domande che erano rimaste appese nella mia mente. “Morena, ma quando si diventa adulti? Quando hai capito che sei diventata grande?”

Mi sfila delicatamente dalle mani il suo libro, lo apre e mi indica l’esatto passaggio da cui è nata la mia prima domanda del pomeriggio.

“Qui, quando ho scritto […] donne libere, da ogni pregiudizio*. Ecco quando ho capito di essere diventata davvero adulta. Proprio quando ho smesso di sacrificare parti di me e ho iniziato a rispettarmi, senza nascondermi. Io esigo rispetto nei confronti della mia persona, di essere rispettata per chi sono e quel che valgo. E lo stesso vale per me nei confronti del prossimo. Se ciò non accade, abbiamo un bel problema: lì sì che mi arrabbio. Non è un atteggiamento accettabile, a mio parere”.

È impossibile non ammirare l’approccio di Morena alla vita che, nonostante gli spigoli, può regalare tanta gioia. E, all’improvviso, si illumina una piccola luce in un angolo del mio oceano interiore: mi appare un ricordo sbiadito di una lezione di letteratura greca delle superiori. Stavamo analizzando il passo dell’Iliade in cui Apollo getta sull’accampamento degli Achei una terribile pestilenza come punizione del disprezzo di Agamennone nei confronti del sacerdote Crise – devoto al dio in questione – e di sua figlia Criseide. È qui che si aggancia il mio ricordo del concetto di “miasma”: questa parola deriva da un verbo greco che significa “sporcare/contaminare”, ed è infatti collegata al contesto di peste scagliata sull’intero esercito greco piuttosto che sull’unico colpevole dell’ira di Apollo. Insomma, si tratta di un “contagio della colpa” che si diffonde collettivamente, come una macchia di inchiostro, su chiunque sia vicino al responsabile del malfatto. Rifletto su come questo pomeriggio in compagnia di Morena abbia avuto su di me l’effetto di un miasma positivo, un contagio emotivo prezioso che ha mosso dentro me pensieri e forze pronti a scattare sull’attenti. Non solo ho ascoltato, ma ho anche “sentito forte” ogni parola che mi ha dedicato. Morena ha proprio ragione: amare è inevitabile.Copia di POST 2024 1Ma ora, in che direzione sta andando? Verso quale strada pedala la nostra ciclista storica?

“In realtà” mi dice “quando ho colto l’idea di Paola e ho scelto di tenere fede alla promessa fatta poco prima che se ne andasse, non avevo proprio idea che avrei creato ciò che esiste oggi. Ti spiego meglio: sapevo che sarebbe nato un libro di memorie sulla mia storia di atleta e donna, sulla nostra testimonianza di libertà e amore, ma mai avrei pensato di ottenere questa risonanza. Non parlo di riflettori, intendo che questo non è stato un semplice libro, ma una chiave per la mia “seconda nascita”. Come ti ho detto, è alla mia età che sento di aver avuto il più grande riscatto, e oggi sono immersa in una quotidianità meravigliosa. Pensa che ho il calendario pieno fino a marzo 2025: partecipo a delle giornate dedicate a trasmettere i valori della mia biografia. Amo andare a parlarne nelle scuole: i ragazzi capiscono che sono sincera e si sentono davvero liberi di ascoltare se stessi e gli altri. Io mi sento subito accolta per chi sono, mi racconto con piacere, e mostro loro che nonostante non sia più uguale all’atleta in copertina e possa sembrare la loro nonna, c’è tanto altro da scoprire. Anche questo è la vita”.

Morena mi fa uno splendido regalo, mi scrive una dedica che io incornicerò e metterò sul mio comodino. Definisce “dolce connubio” le ore passate a raccontarsi e ad ascoltarmi, mi esorta a insistere a pedalare per continuare a distinguermi dalla tanta normalità dei più (ndr. che bel complimento!). Insomma, può essere che sciogliere dei nodi porti a crearne degli altri… e anche questo è la vita.

Il tempo passato insieme – oltre che quello impiegato a leggere la sua storia – ha scomodato massicciamente il significato profondo della parola “simpatia”: σύν + πάϑος, letteralmente, “sentire con”. Sentirsi affini e andare d’accordo sarebbe riduttivo, preferisco infatti dire che “sentire insieme” a Morena è stato un dono collaterale ereditato dal desiderio di Paola di diffondere una storia unica come la protagonista. Morena: Paola aveva ragione, grazie!

Vuoi conoscere anche la storia di Andrea? Clicca qui https://tinyurl.com/p3tfswkk

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Morena in sella alla sua bici, in gara.

 

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Paola e Morena, sorridenti.

 

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“Non freno mai, spingo, spingo sempre, spingere è importantissimo nella vita, andare avanti, avere l’entusiasmo dello slancio”

 

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Morena con l’editore del suo libro “Volevo fare la corridora”.

 

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Appassionato, divulgatore, teorico, allenatore degli allenatori

Sabato 11 gennaio 2025 alle ore 18:00, presso Palazzo CONI, via Giovanni Battista Piranesi, 46, 20137, Milano.

L’evento in onore di Lino Maffi, sarà un momento speciale per celebrare colui che è stato protagonista più di mezzo secolo del nostro gioco.

L’invito è esteso a tutti i Club lombardi e non, ad ogni affezionato del mondo ovale che ha voglia di ricordare chi ha fatto la storia del rugby italiano.

La serata è promossa dal Comitato Regionale Lombardo, patrocinata da Federazione Italiana Rugby, proposta da Rugby Milano e Rugby Rho, e verrà condotta dal giornalista e scrittore Marco Pastonesi.

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COME UN UROBORO: OVVERO, L’ARTE DI RINASCERE

L’uroboro o, palindromamente, oroboro, è il simbolo di un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il continuo divenire, la natura ciclica delle cose, un’energia apparentemente statica che contemporaneamente divora e rigenera sé stessa: insomma, è infinito, immortalità, eterno ritorno.

Questa rubrica con pubblicazione mensile offre uno sguardo sulla vita reale di personalità del panorama sportivo che ci vogliono raccontare da dove vengono, chi sono e dove stanno andando: “l’infinito mutare della loro pelle”. Questi atleti non hanno paura di condividere qualcosa che solo loro possono sentire, ciò che li spinge a raggiungere la versione di sé che, dubbi o certezze, è in verità già lì ad attenderli… come un uroboro che si distrugge e crea allo stesso tempo.

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ANDREA FERRERO

Non mi stupisco di aver trovato parcheggio vicino all’entrata: d’altronde non è orario di allenamento e il box è vuoto. I pochi passi che mi separano tra il sedile della mia auto e il cancello mi fanno uno strano effetto, un déjà-vu fin troppo nitido, ma è solo quando premo il citofono e scatta automatica la serratura che mi accorgo di cosa sento. Quello è un gesto che ho fatto mille e mille volte, e non saprei nemmeno dire un numero preciso senza sembrare esagerata. Quando varco la soglia di Crossfit Verbania mi investe il pensiero che questa è la prima volta in due anni e mzzo che ci ritorno. Eppure, lì dentro, per tanto tempo, ci ho passato anche dieci, dodici, quindici ore alla settimana: non solo è il luogo in cui mi sono innamorata nuovamente dello sport, a venti anni, ma è anche dove il mio percorso di atleta ha avuto inizio. Quella che, a mio parere, è stata una seconda adolescenza. So solo che oggi non sarei chi sono, né farei il lavoro che faccio, se non fossi passata di qui e non avessi vissuto questo box così come è accaduto. Negli ultimi due anni ho abbandonato progressivamente il CrossFit per entrare nel mondo della pesistica olimpica: è nato un altro amore. Tuttavia, ammetto, aver chiuso quel capitolo della mia vita mi muove dentro, ancora oggi, tante spinte e forze diverse. “È forse questo il motivo per cui ci ho messo così tanto a tornare qui?”Copia di POST 2024 1Mi lascio alle spalle la pesante porta di ferro e noto che si stanno allenando un paio di professionisti. Mi guardo attorno ed è come se fossi uscita di qui ieri sera: anche Loki, enorme incrocio tra labrador e rottweiler, nonché mascotte ufficiale del box, mi accoglie facendo le feste.

Provo a sovrastare il rumore dei bilancieri sbattuti a terra e della musica che esce dalle casse: “Andre, sei su??”.

Dopo un caffè, seduti a una scrivania accanto alla stufa, chiedo ad Andrea di parlare di sé: l’ha già fatto tante altre volte, ma penso che non ci si abitui mai a dover riassumere la propria vita in una manciata di frasi.

Andrea Ferrero è un crosfitter professionista ben affermato a livello europeo e mondiale che ha praticato tante discipline sportive molto diverse tra loro, da che ne ha memoria. Oltre l’esperienza calcistica giovanile, si sofferma soprattutto sugli anni di pallanuoto ad Arona (principalmente quelli delle scuole superiori) e sulla vita di rugbista, durata dai 19 fino ai 24 anni circa. Cercando di ripercorrere la metamorfosi che ha attraversato la sua figura di atleta, scopro dettagli che fanno sembrare più “umano” questo professionista, coach e owner di un box di CrossFit. Dopo lo scioglimento della sua squadra di pallanuoto, come fanno spesso tanti giovani adulti, ha scelto di seguire un suo ex compagno di allenamento e si è dedicato al rugby.

“Insomma, sembrano due sport diversi ma alla fine sono passato dalle botte in acqua alle botte su erba… cambiava solo l’elemento in cui stavo immerso. Ora quel club ha anche cambiato nome, si è unito ad altre società limitrofe, e ricordo che quando l’ho vissuto io era una realtà piccola ma in crescita. Pensa che la nostra era addirittura la prima squadra della società: niente eredità, ci siamo buttati in campo e abbiamo tutti contribuito a creare qualcosa”.

Si sofferma con piacere a raccontarmi quanto ma soprattutto cosa questo sport gli ha trasmesso. “Sicuramente l’umiltà: quello è stato un contesto di estrema crescita, in cui non vi erano differenze tra chi ne faceva parte. Difatti, ognuno faceva tutto, diventando così parte del “tutto” in questione – dal sistemare il campo a gestire gli spostamenti, ad avere cura del materiale che utilizzavamo. Sento di dire che mi spiace non essere andato avanti in quella esperienza”.

Soprattutto, ammette, gli manca l’idea della squadra, del gruppo. Ora, la sua, è una disciplina individuale ben diversa. È necessario trovare spontaneamente il proprio why (il proprio perché) per sopravvivere e andare avanti. Tuttavia, puntualizza, il box serve a ciò: a non farti sentire solo, a creare un ambiente e una mentalità di sacrificio comune, a collegare i punti di una enigmistica che sarebbe altrimenti irrisolvibile.

Quando gli chiedo quale sia stato il passaggio tra rugby e CrossFit, non mi sorprende sentire che è tutto iniziato per caso, senza volerlo, un po’ come tutte le più grandi storie d’amore.

“Come ti dicevo, appena mi sono convertito al rugby ho iniziato i miei studi universitari. Conclusi i cinque anni di studi in Economia, a Novara, ho iniziato a lavorare a La Spezia – e così per i tre anni seguenti, fino al 2015. Quindi in settimana vivevo e lavoravo lì: ero impiegato in una società di ingegneria energetica… e poi i weekend tornavo a Borgomanero per giocare le mie partite. Questa “divisione forzata” della settimana è stata un po’ subìta da me all’epoca, perché direi che mi infastidiva presentarmi in campo i fine settimana e quasi “rubare” il posto a qualche mio compagno che si era invece fatto i suoi tre allenamenti canonici per poi non essere convocato. Riconosco anche che ero un privilegiato, perché dal lunedì al venerdì studiavo, ma altri della mia squadra lavoravano e si prendevano pure le botte al freddo, in campo, alla sera. Insomma, mi saltava all’occhio che io giocavo anche se non mi allenavo durante la settimana. Oddio, in verità, ovviamente mi allenavo – in Liguria frequentavo una palestra commerciale tappezzata di specchi e linoleum – però, ecco, non mi prendevo freddo e colpi come i miei compagni che vivevano in Piemonte”.

E poi? Cosa è cambiato?Copia di POST 2024 1“Facciamo un passo indietro: un sabato mattina del 2011, a Milano, ho preso parte a una manifestazione organizzata dalla Reebok ed è lì che sono inciampato nel CrossFit. Così, con il mio preparatore atletico, ho iniziato a introdurlo nel mio allenamento settimanale in Liguria, per performare meglio da rugbista. Dunque, per qualche tempo l’ho utilizzato come “propedeutica”, ma è andata a finire che mi ci sono convertito totalmente. Insomma, era più comodo e pratico, diciamo, del rugby – anche valutando la questione del rispetto dei compagni di squadra cui ti ho accennato prima. Ma è nata una fortissima passione che mi ha risucchiato con potenza in questo mondo. Difatti, qualche mese dopo aver conseguito la laurea, cioè a inizio 2014, ho scelto di lasciare il rugby per frequentare stabilmente un box di Arona (provincia di Novara). Insomma: a settembre dello stesso anno ho preso parte alla mia prima competizione ufficiale, nel 2015 ho acquisito la mia prima abilitazione come istruttore di CrossFit e… nel 2017 ho finalmente scelto di aprire il mio box qui, a Verbania”.

Il discorso continua senza bisogno che io faccia domande, vedo che Andrea ripercorre le memorie con piacere. “Beh, ora ho un bagaglio di esperienza ampio, ma dieci anni fa (ndr. appena approcciata questa disciplina) è innegabile che la voglia di fare fosse diversa. Non sto dicendo che mi sono stancato, però ammetto che adesso, un po’ per la monotonia che è naturale subentri dopo così tanto tempo, un po’ per le vicende accadute negli ultimi Games[1] e tutto ciò che è diventato l’ambiente CrossFit… beh, vivere questa quotidianità, per me, ha cambiato significato più e più volte”.

Non starà più in acqua con regolarità, ma Andrea è comunque del segno dei Pesci: è nato nel 1989, e mi spiega che è uno degli ultimi competitor (crosfitter professionisti) della sua generazione. “Siamo rimasti in pochissimi, della mia età, a fare gare. Un po’ perché qualcuno ha preso qualche strada sbagliata, un po’ perché iniziamo a non essere proprio “freschissimi” e un po’ perché, come ti dicevo, a una certa diventa dura continuare a testa bassa in questo sport. Tra l’altro, ovviamente, qualcuno ha anche scelto di dedicarsi alla famiglia, ai figli… insomma, di cambiare”.

Mi viene naturale chiedergli come si vive la condizione di atleta professionista, come si riesce a gestire l’apparenza di “fortunato” o “predestinato” che a volte rende meno umani coloro che ce la fanno agli occhi degli amatori o di chi non pratica alcuna disciplina. Si apre una riflessione molto interessante in cui mi chiarisce più volte di non essersi mai sentito speciale, rispetto questo argomento.

“Nel CrossFit è necessario essere una persona, e mi viene da dirlo in inglese, grounded (nel senso di “con i piedi per terra”). Montarsi la testa non è un atteggiamento che ti porta lontano. Dall’esterno posso sembrare favorito dal destino o dai geni, ma dietro a ciò che sono c’è e c’è stato tanto lavoro. Ho sempre fatto sport e movimento, tutt’ora, appena ne ho occasione, provo qualsiasi disciplina all’aria aperta, sull’acqua, appeso a qualche roccia. Ecco, non lo nego, è possibile che vi sia una predisposizione al movimento: ricordo che anche da bambino, giocando con i miei amici e cuginetti, ero quello più agile e propenso a “buttarmi”… ho passato l’infanzia a fare moltissima attività e adoravo arrampicarmi sugli alberi per rubare la frutta (ndr. ormai è tutto caduto in prescrizione, quindi lo posso scrivere).”

“Scherzi a parte, credo che sia proprio vera quella frase che recita il lavoro duro batte il talento quando il talento non lavora. Insomma, impegnarsi porta non solo risultati ma anche tanta fiducia in sé, nelle proprie capacità – che è fondamentale tanto nello sport quanto nella vita”.

Un po’ all’inglese o, forse, con accezione dialettale, aggiunge che anche la confidenza è una qualità che ha costruito ben solida in questi anni di allenamenti continui: sapere di sentirsi all’altezza, non temere di sbilanciarsi, essere anche un po’ spregiudicati, a volte. “Tante volte” continua “alcuni atleti performano bene in allenamento, ma al momento della gara si irrigidiscono. Credo che il CrossFit aiuti a costruire anche questa attitudine, diciamo, “elastica”. Imparare ad allenarsi spingendo al massimo, in affanno, e gestendo il carico (pesi, bilanciere, altri strumenti di allenamento) in queste condizioni, probabilmente consente di sviluppare una capacità di adattamento tale da permettere di andare avanti, nonostante tutto. Anche gli sport situazionali[2], in generale, direi che hanno questo esito: credo che ciò comporti una sorta di transfert nella vita”.

Il nostro ragionamento ci porta a un pensiero che guida il mio lavoro, quotidianamente, ovvero l’affermazione per cui lo sport è una palestra di vita. E come non essere d’accordo.

Mi ricordo che oltre che con un atleta professionista, sto parlando anche con un istruttore, e gli chiedo di approfondire questo aspetto del suo lavoro. “Il mio obiettivo, in quanto coach, è far star meglio chi viene al mio box ad allenarsi, indipendentemente dal risultato che ottiene. Sento l’urgenza di far capire loro che il nostro corpo si sa muovere anche in spazi diversi da quelli ordinari, provo a mostrare loro come sfruttare spazi motori che non hanno mai preso in considerazione”.

Mi astraggo per un secondo dal qui e ora, tuttavia mai smettendo di ascoltarlo. Diciamo che con la mia professione sono abituata a pensare contemporaneamente “su più piani”, ed è quello che per un istante mi accade ora. Non può ricordarselo, anzi, nemmeno lo può sapere, ma ciò che mi ha dato il coraggio di mettere piede nel suo box è stata proprio una telefonata con lui, diversi anni fa. In verità, mi ci sono volute settimane prima di fare il numero trovato online e chiedere informazioni al proprietario di CrossFit Verbania. Temevo di non essere all’altezza, ero fuori forma e avevo interrotto bruscamente e in malo modo l’attività sportiva, un paio di anni prima. Dopo avergli chiesto gli orari, ho pensato bene di mettere le mani avanti e avvisare Andrea che, sì, sarei venuta a fare la classe di prova, però non ero per nulla allenata e forse era meglio se stessi solo lì a guardare per capire se fosse qualcosa alla mia portata. “Non bisogna essere allenati per iniziare a fare CrossFit, bisogna iniziare a farlo per essere allenati”… e così, per sei anni, questo è proprio quello che ho fatto.

C’è da dire che fare sport è diverso da “fare attività fisica per stare bene”: lo sport richiede tutt’altro tipo di impegno. Oltretutto, la differenza la fa anche il fattore mentale, cioè come ci si considera rispetto questo argomento. Per esempio, quando giocavo a rugby, direi che praticamente tutti i compagni di squadra non si consideravano “sportivi” e non perché non si potesse effettivamente esserlo per via della categoria (giocavamo in serie C), ma perché non si dava priorità a certe cose… come ti stavo dicendo prima, considerarsi “atleti” implica un impegno mentale e una serietà, una profondità più ragionata, diciamo, riguardo all’approccio con il proprio sport. Nella mia disciplina, tutti i partecipanti della classe sono considerati “atleti” perché hanno uguali necessità e bisogni di chi è professionista: insomma, entrambe queste categorie svolgono lo stesso tipo di attività, anche se scalata[3]”.Copia di POST 2024 1Anche la vita di Andrea ha conosciuto battute di arresto e momenti di sconforto. Infatti, mi confida un’esperienza che l’ha segnato nel profondo, nonostante gli abbia insegnato tanto. Dieci anni fa ha condiviso con il suo gruppo di amici un lutto che nessuno si sarebbe mai aspettato di vivere:

“Facevamo tantissime attività insieme, dall’alpinismo all’arrampicata, dal freeride (sci) ai giri in bici. Tra noi tutti spiccava Matteo, soprannominato “Balza” per via del suo cognome. Ecco, lui era un ragazzo fragilissimo e potente allo stesso tempo, qualcuno che aveva un modo di sentire viscerale, direi… possedeva una sorta di scintilla divina e la portava in tutto ciò che faceva. Insomma, era un estremista della fatica e faceva tantissimo per poter sentire e vivere ciò che compieva… non so se mi spiego. Ha avuto una vita parecchio difficile, questo devo dirlo. Ad ogni modo, nel 2014, ha avuto un incidente in decollo con il parapendio, lanciandosi dai 4000 metri.”

Andrea definisce quel periodo come un “momento strano”, che gli ha aperto gli occhi su una ovvietà che non è per nulla scontata, in realtà: “In questo modo ti rendi conto che qualcuno può andarsene facendo qualcosa, sì, di folle ma… che per lui era la vita. E allora vieni a patti con ciò, lo accetti, e capisci che è giusto vivere – senza esagerare – ma facendolo… insomma, vivendo sul serio!”.

Probabilmente, ipotizza, è proprio questa vicenda tragica ad essere stata per lui un turning point, le sliding doors che tutti attraversano anche più volte nella propria vita. Difatti, senza traccia di esitazione, conclude che ciò gli ha dato la spinta giusta per passare dalla vita di ufficio (a La Spezia) a quella di sportivo che, lo vediamo tutti ora, l’ha portato davvero lontano. “Non a caso, dopo ciò che è successo a Balza, molti altri del nostro gruppo hanno svoltato la propria vita in modo non indifferente”.

Questo aneddoto emozionante ci aggancia immediatamente alla riflessione per cui sente la sua dimensione di istruttore come un insieme di contributi di coloro che ha incontrato nel suo cammino, in diversi contesti di vita: “Potrei dire che la mia immagine di allenatore è composta da tanti pezzetti di puzzle che, visti da lontano, formano appunto chi sono ora. Credo sia fondamentale carpire il buono da chi incrociamo, farlo nostro… insomma, interrompere il trauma generazionale che possiamo aver vissuto con gli allenatori incontrati”. E così, si sofferma per un attimo a ricordare la sensibilità di Attilio, una piccola preziosa tessera di puzzle rugbistica.

Ovviamente sono presenti diverse esperienze negative, momenti in cui è stato necessario fare una cernita delle tessere che la sorte gli inviava per completare il proprio quadro non solo di coach, ma anche di “Andrea” in generale. “Con il tempo ho imparato a essere un po’ più egoista. Ciò che intendo è che essere eccessivamente giver (nel senso di “altruista”) funziona ma fino a un certo punto. Con le cattive maniere ho imparato che è necessario valutare in modo più ampio questa mia attitudine: a volte dire di no non significa fare male agli altri, ma fare bene a sé e, di conseguenza, anche agli altri”. Probabilmente quello dei confini è un tema parecchio difficile da gestire nei panni di allenatore: mi sottolinea, difatti, quanto sia importante lavorarci affinché il “sì” sia davvero reale, perché dire sì a tutti significa solo dire di no. “Ponendo chiari limiti, pian piano, ho notato che gli altri erano più propensi a rispettarli, oltre che accettarli. E tutto è diventato più semplice. Se il “sì” è per tutti, allora perde di rispetto”.

Approfitto di questa apertura per chiedergli cosa vorrebbe che gli altri sapessero di lui atleta professionista, di lui “quello forte”, di lui “prescelto dagli dei” e “beato lui che è così”. Con tranquillità Andre si riaggancia a ciò che già mi ha detto riguardo al modo in cui vive la propria realtà di competitor:

Nonostante all’apparenza potrei sembrare sempre super tranquillo e deciso, ciò che non traspare è la sensazione di incongruenza interiore che talvolta provo rispetto a come performo o quello che mostrano i risultati ottenuti. Soprattutto negli ultimi anni che, come ti dicevo, si inizia a sentire il peso di tutto il lavoro fatto e da fare. Cioè, io sono capace di alternare tre mesi in cui mi alleno davvero sporadicamente a tre mesi in cui vado a manetta. Ormai sento di riconoscere e riuscire a gestire queste mie modalità di funzionamento: ci convivo e sono parte di quello che sono.” Insomma, consapevolezza significa accettare tutto di noi, non solo quello che ci fa comodo o ci piace.Copia di POST 2024 1Provo a coglierlo di sorpresa e andare più sul personale: sono curiosa di sapere cosa farebbe subito, domani, se non avesse la paura di farlo. Il suo linguaggio del corpo parla chiaro, mostra alcune micro e macro espressioni della sorpresa: sopracciglia alzate, un breve respiro che rimane trattenuto finché non sorride e si rilassa, deciso a raccontarsi ancora. Un po’ come quando a scuola la maestra chiedeva le tabelline e, per prendere tempo e pensare, l’interrogato ripeteva la domanda, anche Andre esita qualche secondo:

“Cosa farei se non avessi paura? Probabilmente creare una situazione imprenditoriale totalmente delegata in modo che io possa viaggiare per il mondo e fare esperienze di sport, di posti mai visti e… di vita, insomma”. È chiarissimo quanto il cordone ombelicale che lo lega al suo box sia fortissimo, e fa fatica a tollerare l’idea di lasciarlo per diverso tempo “Questo posto fa parte della mia identità. E poi, sinceramente, avrei anche paura di non riuscire a tornare indietro così facilmente. Dopo una tale esperienza come potrebbe essere semplice riassorbirmi nella mia quotidianità, sebbene la ami? In questa ottica ci sarebbe la probabilità di iniziare a considerare lo stare qui come una sorta di convenzione sociale, tipo fare il pane la domenica, o sposarsi.”

Dopo quasi due ore inizio a tirare le fila delle nostre parole e intravedo un otto rovesciato, o un uroboro, in sotto impressione alle immagini che mi ha regalato: in che direzione sta andando Andrea, oggi?

“Comunque, la mia vita attuale non è finalizzata a questo desiderio – per ora – inespresso, però lo tengo lì. Al momento mi godo quello che sto facendo, la mia vita, ciò che ho costruito con tanta passione, fatica, e tempo. Non sembra, ma è già un bel lavoro. Ti ripeto: so di essere fortunato. La mia situazione famigliare, ciò che è accaduto nella mia vita, il contesto in cui sono immerso tutt’ora sono probabilmente state la mia fortuna: hanno consentito le condizioni adatte per iniziare questo progetto, ma soprattutto per portarlo avanti. Non da meno, allo stesso tempo, mi hanno insegnato ad essere grato di ciò che si può fare e si fa”.

Condivido appieno le sue parole e prima che abbia il tempo di intervenire mi anticipa un’immagine che sento, sotto diverse forme, molto vicina a me: “Ma ci pensi? Ovviamente può sembrare un peso alzarsi al mattino presto, di inverno, per venire ad aprire e scaldare il box gelato. Ma la verità è che questo è un privilegio: sto facendo ciò che amo. La sindrome di Calimero non aiuta, crea solamente un circolo vizioso che ci affossa.”

Sembra avermi tolto le parole di bocca: anche io dico sempre che sono tanto fortunata. Ma riconosco che ho lavorato per arrivare fin dove sto ora… e me la godo. 

Probabilmente “uroboro” non è solo cambiamento continuo, ma anche un imparare a scoprirsi nuovi rimanendo sempre gli stessi. Cogliere i frutti di ciò che si è stati e alimentare la versione di sé che, ora, sentiamo essere noi e noi soltanto. Il mio coach lo conoscevo già, ma non mi aspettavo di ritrovarlo così tanto in me – e magari non sono l’unica, giunti a questo punto. Quali tessere del puzzle scegliamo consapevolmente per creare il nostro scheletro e quali senza pensarci?

Leggi qui per il primo numero https://tinyurl.com/4m6etp25

 

Foto 2   

Andrea  

 

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NOTE:
[1] I CrossFit Games sono una competizione atletica mondiale che si svolge ogni estate dal 2007.
[2] Gli sport situazionali (o “di situazione”) sono discipline in cui l'esito dell'azione, quindi il risultato, non dipende esclusivamente dal gesto tecnico e dalla prestazione fisica, ma dalla capacità di trovare le giuste risposte di adattamenti a stimoli diversi (rugby, calcio, basket, tennis…)
[3] In gergo, questo termine si riferisce al riadattamento e aggiustamento dei carichi di peso e dei movimenti (generalmente diminuendoli o semplificandoli) affinché siano gestibili da chi li affronta, compatibilmente con il suo livello di allenamento e forza.

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